Un lungo cammino, che giorno dopo giorno ha percorso più di 40 anni, capace di dare una risposta concreta alla sofferenza portata dalle tossicodipendenze. In questo luogo quella che per tanti giovani era morte e solitudine si è trasformata in una comunità viva e fraterna. Sono tanti i volti, le storie e le mani che si sono intrecciate in questa realtà, a due passi da Marradi. Il 4 ottobre 1980 venne fondata sui monti di Popolano la comunità di Sasso Montegianni, la cui storia virtuosa prosegue ancora oggi a quarant’anni di distanza. Dato che le celebrazioni per i 40 anni, nel 2020, si sono dovute svolgere in piena pandemia e con forte limitazioni, si è deciso di recuperare questa importante tappa con una festa domenica 25 settembre 2022, a partire dalle 11, per accogliere gli amici, le famiglie e tutti coloro che sentono di condividere una relazione importante con la lunga storia di Sasso.

Gli anni ’70 e ’80: l’inganno crudele della droga

Un’occasione per festeggiare il presente, progettare il futuro, ma anche per fare memoria su uno spaccato sociale, quello degli anni ’70 e ’80, da non dimenticare. Negli ultimi tempi anche la serie Netflix “Sanpa” ha riportato al centro del dibattito la lotta alle tossicodipendenze e la memoria storica degli anni più drammatici in cui esplose il fenomeno, quando stato e istituzioni si trovarono impreparati a gestire quella che fu una vera e propria emergenza sociale anche a Faenza. Emblematico per raccontare gli anni più drammatici della diffusione della droga nel nostro territorio, è l’omicidio il 15 aprile del 1986 della 33enne faentina Giuliana Bassetti raccontata da Carlo Raggi nel libro Faenza la cava degli assassini. A porre fine alla vita della ragazza fu Maurizio Saragoni, trentenne tossicodipendente di Forlì, che dopo un primo incontro con Giuliana la uccise in auto portandole via circa 180mila lire. Raggi tratteggia nel libro lo scenario di quegli anni: “L’eroina, il buco in vena, da oltre un decennio sono in crescita costante, decine, centinaia e migliaia di ragazzi, in Romagna come altrove, sono prigionieri di se stessi e degli spacciatori. Il denaro per ‘farsi’ non basta mai, così occorre rubare, le autoradio delle vetture, i gioielli dei familiari, e se il furto non rende, si passa allo scippo, poi alla rapina, coltello in una mano, richiesta di denaro dall’altra”.

Con gli operatori della Comunità di Sasso di Popolano ripercorriamo in questa intervista lo scenario di quel periodo dal quale nacque l’esperienza virtuosa attiva ancora oggi nella Valle del Lamone.

Sasso: la risposta senza pregiudizi a una sofferenza che vivevano tanti nostri giovani

Dal punto di vista delle tossicodipendenze, cosa hanno rappresentato gli anni ‘70 e ‘80?

Molti giovani tossicodipendenti, non trovando aiuto sul territorio, cercavano rifugio sui nostri monti occupando le case coloniche abbandonate dagli agricoltori in cerca di fortuna altrove. Questi giovani provenivano principalmente dalle zone di Milano e Varese. Uomini e donne, anche con bambini, che sognavano di tornare a una vita semplice, anche povera, ma ricca di rapporti carichi di un’idealità nella quale sentivi i residui amari del fuoco che in quegli anni cullava le speranze dei giovani, che andava spegnendosi nella rabbia delle delusioni. Ogni casa si strutturava nella condivisione per una sopravvivenza faticosa ma possibile. “Zappatori senza padroni”, il nome di una delle comuni. Giovani, fortemente politicizzati, ma pacifisti e pacifici, delusi dall’esclusione che avvertivano come una violenza e un’incomprensione che li convinceva sempre più che non c’era posto nella società per chi non accettava di essere omologato nel gregge.

sasso casolare primi anni
Il casolare della comunità dei Sasso nei primi anni.

All’epoca come ha risposto Faenza a questo nuovo fenomeno? Si è trovata impreparata?

Nelle Comuni, sui monti, avevano trovato rifugio anche giovani faentini. A “Pianbaruccioli” l’anima creativa e fedele era un giovane forlivese. Piantavano campi di mariuana come risposta artigiana e necessaria a placare il vuoto delle droghe. Quando entrava l’alcool, però, si faceva più difficile la convivenza e diventava una fatica moltiplicata per tutti. A Faenza negli anni ‘70-‘80 il fenomeno devastante della droga aveva messo radici nella cultura di tanti giovani. Lo Stato a quel tempo dava risposte poco puntuali. Un centro di aiuto in piazza delle Erbe. La responsabile, un’assistente sociale, un infermiere e un medico impiegato per poche ore settimanali. Questo dice quanto insufficiente e anacronistica fosse la risposta a un fenomeno, senza valutare il molto sommerso. La mancanza di risposte ha lasciato mano libera al fenomeno devastante e tragico dell’Aids che a Faenza è stato particolarmente diffuso. La presenza successiva al Sert del dott. Polidori e della dott.ssa Olivoni hanno permesso una risposta più puntuale che ha comunque faticato a superare incomprensioni e ostilità legate alla cultura repressiva come rimedio più sicuro a quel grave male.

Chi erano i giovani che cominciavano a farsi?

Dare una risposta puntuale è molto difficile; più facile rispondere che una volta presenti le droghe trovano, in mille modi furbeschi, la loro diffusione sempre più moltiplicata. La Comunità affronta il difficile dialogo con il tossicodipendente tentando, aldilà di ogni pregiudizio, di incontrare il mistero di un patire, di una sofferenza radicata in un tessuto vitale umiliato dall’abbandono, dalla solitudine, dal rifiuto della propria fragilità, nascosta anche nel tessuto affettivo a cominciare dai rapporti in famiglia. Una sofferenza mal gestita è legata all’uso delle droghe. Un sogno di liberazione che accarezzato e amato, rivela nel tempo l’inganno crudele e la mortificazione dell’umano.

Quali vie d’uscita aveva un giovane per disintossicarsi? Come si muovevano le istituzioni?

Il problema da mettere a fuoco era creare una cultura alternativa alle idee che sosteneva l’impalcatura delle convinzioni che la droga fosse cosa buona e bella, e che non fosse da abbandonare, ma da gestire. L’impatto iniziale è stato l’esaltazione di un equivoco che ancora oggi sottende a tante fragilità e fallimenti. Intervenire con il metadone è stata una risposta intelligente, ma incompresa da tanti operatori. Polemiche che ancora oggi sopravvivono in chi ha capito poco il velenoso fenomeno delle droghe. Quante vite risparmiate, quante sofferenze alleviate se questo farmaco fosse stato accolto con intelligenza. Faenza è stata davvero la punta avanzata di questa risposta che può sembrare un compromesso ma è letteralmente una cura che permette di riscoprire la vita gestendo il farmaco in un dialogo serio e amichevole con gli operatori.

La nascita della Comunità di Sasso: “La chiave? Tenere la porta aperta e lasciarsi provocare dalle sofferenze”

Come è nata la comunità di Sasso?

In un podere abbandonato, ma velocemente ristrutturato, dal 4 ottobre 1980, festa di san Francesco, aveva preso vita una realtà formata da quattro giovani. Erano l’espressione di un gruppo dinamico, aperto, sensibile ai problemi missionari e della solidarietà legato a Rita Rossi, missionaria in Camerun e che da anni, in parrocchia a Cardeto guidati da don Nilo Nannini, vivevano l’esperienza quotidiana della preghiera. Perché la scelta di dar vita a una Comunità? Lo scopo era quello di sperimentare quanto fosse possibile vivere una fraternità, una condivisione radicale, anche nel frutto del lavoro comune. “Da cammino s’apre cammino”, era lo slogan che sosteneva i passi della comunità. Alla comparsa di un ragazzino, piagato dalla droga, accompagnato dall’angoscia di un generoso operatore del Sert che, dopo aver bussato a molte porte, chiedeva per lui tenerezza e accoglienza, non lasciarono cadere la risposta. Incerti, vollero incontrare i profeti del tempo: Turoldo, Barsotti, padre Natale eremita di Langhirano, padre Benedetto Calati di Camaldoli, perché pareva troppo amaro non concludere il cammino intrapreso che non era ritenuto possibile con la presenza di un tossicodipendente. Fra tanta incertezza fu il vescovo che indicò la nuova via come la strada da intraprendere per tentare una risposta alla sofferenza che l’uso della droga moltiplicava coinvolgendo molti giovani e le loro famiglie.

don nilo nannini
Don Nilo Nannini.

Come andarono i primi anni?

I primi passi in questo sentiero sconosciuto e pieno di imprevisti hanno portato la comunità a incontrare gli operatori del Sert di Faenza. Un’amicizia forte, nutrita dalla condivisione di metodi di approccio alle molteplici richieste di aiuto, che ha donato alla comunità un profilo sempre più improntato alla sussidiarietà, così amata, che ha aiutato Comunità e Sert a navigare con più sicurezza e determinazione nelle ostilità che nascevano dalla diversa interpretazione del fenomeno droga. ‘No’ a ogni forma di pregiudizio colpevolizzante, ‘no’ al pregiudizio derivato dal considerare i farmaci alla stregua della droga stessa, ‘no’ al moltiplicare le sofferenze del tossicodipendente con la repressione, ‘no’ al carcere perché risposta violenta e illusoria.

Quali sono stati i punti di forza di questa comunità?

La comunità non avendo un progetto educativo strutturato, da sempre ha scelto di lasciarsi interpellare e provocare dalle sofferenze che incontra. Sin dall’inizio ha lasciato che ogni persona che bussava alla porta di Sasso diventasse la misura con cui intervenire. Quindi non la difesa di un progetto prestabilito o, peggio, di un’ideologia, ma la risposta a un patire. La flessibilità che caratterizza l’approccio educativo della Comunità ha adeguato piano piano il nostro progetto che si dipana in una progressiva assunzione di responsabilità nella custodia di una rete di rapporti che si custodiscono nella tenerezza e nel perdono.

pillola

Come è cambiato, in generale, il fenomeno delle tossicodipendenze nel corso degli anni?

Non sono le tossicodipendenze che cambiano, le sostanze e le circostanze più di tanto non sono differenti. Sono le persone che usano che sono differenti nel corso degli anni. Le persone che entrano in comunità oggi sono lo specchio dei giovani e meno giovani della nostra società attuale. In questo tempo arrivano persone molto introverse e senza tanta curiosità intellettuale e voglia di conoscere, senza esperienze lavorative o scolastiche che abbiano caratterizzato la loro vita. Hanno spesso alle spalle una grande solitudine e vissuti familiari inesistenti.

Quali passi sono stati fatti avanti e dove invece si sta tornando indietro?

Sono stati fatti passi importanti nella consapevolezza che il problema esiste e non è più tabù come una volta. Però i pregiudizi e i luoghi comuni che ancora sussistono rischiano di impedire un vero e proprio cammino di liberazione dalle sostanze. Si torna indietro ogni volta che si affida alla repressione la speranza del riscatto, in questo modo si rinnega tutto il percorso umano, ma anche scientifico, che è stato fatto in questo mezzo secolo per rispondere al disagio che provoca la tossicodipendenza.

“La sfida più grande oggi è far capire che il recupero delle persone tossicodipendenti è una sfida collettiva”

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Quali sono oggi le sfide più difficili di oggi su questo tema?

Riuscire a fare diventare una responsabilità collettiva il recupero delle persone tossicodipendenti. Creare progetti di inclusione dove i protagonisti non sono solo i tossicodipendenti ma anche tutto il mondo che li circonda, dai vicini di casa ai datori di lavoro, dalle società sportive all’associazionismo.

Qual è la storia legata a Sasso più bella che ricordi?

Le storie di Morando, Roberto, Patrizia, Stefano, Luca, Massimiliano, che alla fine del loro percorso hanno scelto di restare e impegnarsi a loro volta per servire la Comunità, sono il segno tangibile che un cambiamento è possibile. E comunque le storie di ogni ragazza e ragazzo che sono passati da Sasso sono storie di “capolavori” che rimarranno sempre presenti e vividi nel cuore.

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La comunità durante una recente vacanza estiva al mare