Venerdì 19 agosto, al Mu.Ve, Museo di Arte Contemporanea del Vescovado (piazza Cesare Battisti 12), alle 20, inaugura a Modigliana una nuova collettiva sul tema La Strada. Il giorno successivo, sabato 20 agosto, sempre al Mu.Ve, nel chiostro della canonica, alle 20 viene proposto l’evento Un luogo comune – racconti di Strada, a cura di Alberta Tedioli, esperta di dialetto modiglianese, con narrazione di racconti e di una sua poesia, in dialetto La Stréda, poiché nel passato, la strada si viveva in dialetto… Abbiamo intervistato Alberta Tedioli.
Quando i bambini vivevano più in strada che in casa…
Vuole raccontarci, com’era la strada in passato e cosa pensa della strada di oggi?
Per millenni la strada è stata la seconda casa delle persone. Era occupata dagli artigiani che la usavano come luogo di lavoro, come esposizione giornaliera delle loro opere e luogo di scambio, osservazione, comunque sempre di socializzazione, la gente passava e si soffermava a fare commenti e a raccontare novità. I rumori del lavoro degli artigiani nelle botteghe sulla strada era il rumore della vita, non era un rumore molesto. Era tollerato, capito, seguito, era la colonna sonora di ogni giornata che si risvegliava con questo concerto di attrezzi al lavoro… I bambini vivevano più in strada che in casa. Ma già da decenni non sostano più nelle strade, sono inquadrati in tante attività, non giocano più nelle vie e nelle piazze. Forse anche per questo oggi tirare su dei bambini è una fatica disumana.
Era meglio la strada?
I bambini ora non vivono in spazi a loro dedicati, vivono male nel mondo degli adulti. Non che la strada fosse un luogo ideale, ma rappresentava e ospitava un modo di vivere. La maggior parte dei giochi nasceva e si realizzava sulla strada.
Le mamme fino agli anni 50 erano quasi tutte a casa. Non voglio dare a questa condizione un valore o un disvalore, ma nel trovarsi a gruppi a fare lavoretti, sorvegliavano anche i figli. I padri erano fuori a lavorare e le mamme rammendavano calzini bucati, lavoravano a ferri e uncinetto, rammendavano e riparavano vestiti e facevano tutti quei lavori che si possono fare in strada sedute su un panchetto di legno o impagliato è screnà. Parlavano, si confidavano fra di loro, sparlavano, tagliavano giacche, non è che facessero sempre del bene.
E controllavano i piccoli.
Ogni tanto chiamavano i bambini. Il bambino mai si sentiva abbandonato. Bisognerebbe anche capire a fondo quanto valesse nella psicologia infantile e nella crescita, questa presenza costante, quanta sicurezza potesse infondere pure nella poca ricchezza o ristrettezza economica.
Nostalgia?
Sembrano pensieri nostalgici e antiquati, ma bisogna soppesare e distinguere solo la felicità dall’infelicità. Oggi la strada è solo un grande pericolo soprattutto per anziani e bambini.
Quand’è finito l’idillio fra strada e uomo? Che cosa è successo che ci ha portato via questi spazi di vita?
Con l’avvento delle automobili che sono diventare egemoni e padrone delle strade. L’avvento della automobili ha trasformato il nostro modo di vivere. Siamo tutti automobilisti, non possiamo incolpare gli altri, la società così si è trasformata e nel darci strumenti di comodità impagabili, ci ha tolto quella libertà di vivere la strada. Chi ha pagato più caro questo benessere sono stati proprio i bambini, che vivevano due vite, una in famiglia e una in strada. La strada era anche quella di Saccomandi, via Corbari, dove d’estate a grandissimi gruppi si andavano a vedere le lucciole. Bastava poco per sentirsi parte di una comunità. Ecco, la strada come luogo della comunità.
a cura di Roberta Tomba