Il linguaggio ecclesiale non è efficace, è obsoleto e poco chiaro.
Dai riscontri dei gruppi sinodali risulta una percezione condivisa: la Chiesa sembra comunicare in modo inappropriato, tramite un lessico antiquato, distante, freddo, che non coglie né trasmette il cuore delle cose. La fede viene incartata in un linguaggio per iniziati che fuori dalla Chiesa non significa nulla, che parla di altro, che suona come un gergo tecnico sganciato dalla vita. Come se le parole della Chiesa non parlassero a noi e alla vita reale.
Inoltre, si rimprovera alla Chiesa l’assenza dagli “ambienti digitali”, soprattutto dai social, dove – con codici espressivi adeguati – potrebbe intercettare i giovani. Eppure – sorpresa! – sono proprio i giovani che chiedono alla Chiesa, non tanto di assumere il loro modo d’esprimersi, ma di valorizzare la Parola e di accompagnarli dentro la Scrittura: «servono parole che possano toccare il cuore e interpellare l’umanità di oggi nei suoi bisogni più profondi, che trasmettano vita e che comunichino la gioia» (dalla Sintesi). Oppure c’è anche il rischio di parlare agli altri in forma scritta, nascondendosi dietro alle parole, pensando di aver detto quello che volevamo, ma senza avere realizzato l’incontro con le persone, né l’ascolto, né il dialogo, né la Chiesa.
C’è necessità e il desiderio di reimparare a parlare, tutti. Non per dare informazioni, ma per creare ponti, relazioni e comunità, ricevere la Parola del Padre per noi, Gesù, maestro anche nell’arte della conversazione.
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Quando poi furono da soli, quelli che erano intorno a Gesù insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole… (Mc 4, 10).
Le parole di Gesù sono diverse, sono varchi sull’eternità. E non sempre erano comprensibili ai suoi uditori: le folle vivevano la dinamica dell’incomprensione e dell’allontanamento (cf. Gv 6, 66) e persino i discepoli avevano bisogno di ricevere ulteriori spiegazioni in privato. Non ci ha dato le sue parole scritte in un bel discorso, ma le ha vissute e realizzate in carne e ossa. Con la sua incarnazione Gesù ha scelto di stare con noi e parlare a noi con voce umana. Ha adottato il nostro linguaggio perché noi potessimo ascoltarlo: ci parla come ad amici (Dei Verbum 1). Al cuore del suo comunicare c’è sempre la parola viva ed efficace, la parola che ci desta, ci scuote, crea movimento, che crea una risposta, una relazione.
La Chiesa nella liturgia riconosce i testi scritti da Davide nei salmi, da Isaia negli oracoli, da Paolo nelle lettere, da Giovanni nel Vangelo… come Parola del Signore. È Dio che ancora oggi ci sta dicendo che questa Parola è viva ed è il senso della nostra vita.
L’assemblea dei credenti ne è consapevole e per questo lo acclama: Gloria a te, o Signore, lode a Te, o Cristo! Il dialogo è cominciato.
A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? (Mc 4, 30)
Gesù adattava il linguaggio alle persone con cui era: attuando l’annuncio, diversificava gli approcci in base agli uditori, inventava parabole con audacia, fantasia e stringente consequenzialità. Anche il Signore sceglieva come esprimersi. Conferma autorevole che non sempre l’annuncio può essere improvvisato. Il linguaggio efficace è frutto di un lavoro profondo che non perde di vista il contenuto: il Vangelo, il Signore morto e risorto. Come non perde di vista le persone che trova accanto, con cui parlo, per portare la sua Parola, avendo un linguaggio che riscalda i cuori, rendendo nuova la narrazione, illuminando la vita di ogni uomo perché parla della vita di ogni uomo.
Occorre allora la «passione di creare ponti tra la rivelazione del mistero di Dio offerta da Gesù e la vita di ogni generazione… adoperando ogni risorsa di intelligenza e di sentimento… senza risparmiare alcuna fatica. Leggere e studiare e approfondire ogni romanzo e ogni saggio e ogni film e ogni programma televisivo e ogni canzone e ogni opera d’arte ma anche ogni capo d’abbigliamento e ogni nuova applicazione per il cellulare e ogni cambiamento di slang e ogni nuovo taglio di capelli e altro ancora che sembra promettere un aiuto per gettare uno sguardo sul cuore dei contemporanei e verificare quanto e quale spazio possa esservi per una parola su Gesù. Per una parola di Gesù» (Armando Matteo).
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Esistono discepoli innamorati della buona notizia di un Dio morto e risorto, un Dio che è amore e misericordia, un Dio che mi viene a cercare per parlarmi come ad un amico; discepoli che vanno a cercare gli altri per annunciarlo (Vescovo Mario, 5 giugno 2022).
Avere un linguaggio da riapprendere e da rimodulare non deve offuscare la vera questione di fondo: non come annunciare la buona notizia, ma nel sapere che cosa è oggi questa buona notizia. Gli antichi argutamente ripetevano: Rem tene, verba sequentur. Possiedi l’argomento, conosci a fondo i fatti, padroneggia la materia e le parole seguiranno.
Scegli ogni giorno di ripartire dalla Parola, che ti aprirà il cuore e lo sguardo, per avere il linguaggio e le parole per andare incontro e accogliere l’altro: per realizzare nel mondo la sua Parola.