In un tempo che non è troppo lontano, la ròba förta (cipolla, aglio e scalogna) costituiva una voce importante nell’alimentazione della nostra gente che per tirare avanti ne faceva largo uso in mille maniere. Chi ne aveva la possibilità la coltivava direttamente nel campo o nell’orto, gli altri cercavano di procurarsela comprandola o, capitava anche questo, cun cvàtar dida e un po’ d’ pavura, cioè rubandola. S’ t’ vö avê na bëla ajêda, a la fe ˜d’ znêr o par Sa’ Sfir (1 febbraio) ch’ la seja nêda, diceva un vecchio proverbio così, per avere un buon prodotto, i più fra i Santi e San Martino piantavano la ròba förta.

Qualcuno preferiva piantare la zóla e la scalógna rósa soltanto cvând ch’ l’era pasê l’inveran. Il periodo della raccolta era per lo più quello della prima metà di luglio quando lo stelo delle piante, ritorto e piegato la mattina d’ Sa’ Zvân, era ormai secco. Qualche chêv d’àj e alcune cipolle venivano tolti lo stesso dè d’ Sa’ Zvân ancora bagnati di rugiada perché si riteneva che avessero delle proprietà curative. Il grosso del raccolto rimaneva nel terreno per completare la maturazione. A luglio dunque, al mattino presto, quando al gamber erano ancora umide par la gvaza, la ròba förta veniva sradicata e portata a casa. In ogni famiglia c’era sempre qualche anziano capace di intrecciarne gli steli fino a ottenere delle lunghe sfilze che venivano appese all’esterno della casa, ma al riparo della pioggia per favorirne la completa essiccazione che ne avrebbe garantito un lungo mantenimento.
La zóla aveva ancora bisogno di prendere sole, l’àj e la scalógna invece andavano conservati all’ombra. Per le donne di casa avê un bõ arcölt d’ ròba förta e riuscire a conservarla bene significava avere a disposizione condimenti e cibo fino alla primavera successiva.

Du spìgul d’àj tritati, da soli o insieme a un po’ di rosmarino o di prezzemolo, bastavano a dar sapore a un sacco di pietanze.
La bruschetta con tanto di prosciutto che oggi va molto di moda si faceva anche allora, ma povera al massimo: na feta d’ pãn rustìda ins e’ fug e na striscêda d’àj sôra! L’aglio cotto nel grasso degli arrosti o sôta la burnisa faceva da companatico. Ricordo che Gigì, il mio nonno materno, spesso faceva colazione cun un chêv d’àj messo a cuocere sotto la cenere calda del focolare. Lo sbucciava spìgul par spìgul e lo mangiava con un po’ di sale e un bël tròcal d’ pân. Qualche volta gli ho fatto compagnia e devo dirvi che mi piaceva, ma… per farvi capire le conseguenze riporto un vecchio detto: L’àj còt e’ póza tri dè da la bóca e òt dè da e’ cul. Considerato pure un potente vermifugo, l’aglio veniva sfregato a lungo sulle pance che si ritenevano infestate dai vermi, specialmente quelle dei bambini.

Con la scalogna (il nome l’ha preso da Ascalona, una località della Palestina) molta gente iniziava la giornata facendo e’ guasta dzõ e la claziõ: tre – cvàtar scalógn, un pizgòt d’ sêl ins e’ piã dla têvla, un tròcal d’ pân, na ciòpa d’ bichir d’ ve˜ e via che ci si avviava al lavoro. Le scalogne non venivano sbucciate con il coltello, ma schiacciate con un pugno che spargeva il loro liquido forte e acre sul legno della tavola. Era questo il modo per renderle più appetibili. Presente in tanti condimenti e soffritti la scalogna veniva conservata anche sottoaceto e consumata come contorno per alcune pietanze.

Ho tenuto per ultima la zóla che il popolo definiva e’ furmàj di purèt. Consumata cruda o cotta aveva un ruolo importantissimo nell’alimentazione della povera gente. In primavera cun dó zól freschi, un po’ d’ sêl e il solito troccolo, uno ci mangiava; cun al gamber, al fój e qualche uovo le donne tiravan fuori dal fartê che al dgeva mâgna, mâgna. Quando poi si era ingrossata veniva affettata, mescolata con dei fagioli lessati e, cvând ch’ u j’era, un po’ di tonno; diventava così un sostanzioso secondo piatto. Per cuocerla si usava soprattutto la padëla dove la zóla bolliva in compagnia di pomodori, zucchine e melanzane. Ne venivano fuori dei frizagli portentosi che riempivano la casa di profumi intensi. L’odore era ancora più evidente se int la padëla inse˜ cun la zóla veniva cotto de fegat o de palmõ. Se durante i mesi invernali qualche cipolla l’aveva fat la coda (cioè era germogliata) non veniva mica buttata via; la piantavano e da quel bulbo spuntavano diversi cipollotti (al zól malisi) che già a marzo erano pronti per essere mangiati crudi o per fare una frittata. Qui mi fermo e spero di aver fatto capire quanto, una volta, fosse importante avê dla ròba förta par putê tirê avãti.

Mario Gurioli