Cinque gigantesche tele capaci di raccontare in tutta la sua forza evocativa la storia di Giuseppe l’ebreo. L’arte sacra contemporanea in questi mesi ha animato lo spazio espositivo del Museo diocesano di Faenza alla chiesa di Santa Maria dell’Angelo, con una personale di Elvis Spadoni dal titolo Per un popolo numeroso. Giuseppe, il figlio di Giacobbe. Spadoni, pittore che vive e lavora a Sant’Arcangelo di Romagna e che da anni affronta tematiche relative all’arte sacra, ha dedicato questo ciclo pittorico alla straordinaria figura di Giuseppe creando cinque grandi scenografie – cinque moderne pale d’altare – che vogliono raccontare in modo poetico altrettanti tempi della vicenda biblica. Per Spadoni la pittura a soggetto sacro non ha lo scopo di “illustrare” una pagina biblica, ma di creare una nuova fedele e personale incarnazione del testo sacro. La mostra sarà visitabile ancora fino al 24 luglio. Con lui approfondiamo il valore dell’arte sacra oggi a partire dalle ultime tele realizzate.

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Intervista a Elvis Spadoni

Come nascono queste tele dedicate a Giuseppe?

L’idea è partita da una proposta del vicedirettore del Museo diocesano di Faenza, Giovanni Gardini, e da don Mattia Gallegati, direttore del Centro regionale per le vocazioni. Il percorso si è sviluppato da un confronto con i giovani, seminaristi e propedeuti di Faenza, che si interrogavano sul tema della vocazione. Ho realizzato diversi incontri con loro prima di indirizzarmi verso l’idea giusta.

E quale è stata?

Ho affrontato l’idea della vocazione cristiana dal punto di vista che ben rappresenta la parabola dei talenti. La vocazione intesa non tanto come privarsi delle proprie passioni o di compiere un sacrificio totale e immediato, ma come qualcosa che si coltiva nel tempo e che fruttifica, donando ricchezza agli altri. Dio ci dona un seme, ma non dobbiamo limitarci a donare il seme, ma nutrirlo e farlo crescere e fruttificare. Da questa idea di vocazione, ho deciso di rappresentare la storia di Giuseppe. Come racconta la Bibbia, ha saputo mettere a frutto i propri talenti per accumulare ricchezze non per cupidigia, ma per aiutare gli altri in tempo di carestia.

Qual è la ricezione di queste opere?

Sono tele pensate per una funzione liturgica e di preghiera, inserite in un ambiente ben preciso. Lo spazio bianco attorno alle figure rappresentante vuole creare un vero e proprio silenzio visivo di meditazione. E ogni persona che guarda l’opera può approcciarsi così alla vicenda biblica, ricercando la verità.

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Cos’è per lei l’arte sacra?

Ho un’idea di arte sacra legata in maniera stretta al testo biblico. In questo percorso fondamentale è stato il mio incontro con i monaci camaldolesi, dove ho sviluppato la pratica della lectio divina, una sorta di mio carburante attraverso cui faccio nascere le opere. La mia arte sacra nasce dai racconti dei testi biblici. Per questo svolgo innanzitutto un grande lavoro sul testo e a partire da quello che la Parola di Dio mi suggerisce. E da qui si plasma attraverso intuizioni.

L’arte sacra è spesso associata a qualcosa di antico. Come renderla contemporanea?

Ciò che rende contemporanea un’opera è la sua capacità di dialogare con le persone di oggi. La mia idea di contemporaneità è creare qualcosa che riesca a parlare alle persone che vivono assieme a me, in questo momento. Sono le persone stesse a stabilire cosa è contemporaneo e cosa no. Questo non significa assecondare la massa. Io per primo sono un uomo che vive nel mondo contemporaneo, per cui in prima battuta seguo il mio gusto. In questo senso sono io il mio primo pubblico, e non credo che la cultura visiva degli altri uomini sia troppo differente. Penso poi che la cultura debba essere democratica, non elitaria. Con le mie opere cerco di arrivare sia al bambino sia all’anziano. Cerco una pittura semplice, come quando Dante scelse il volgare per la stesura della Commedia anziché il più prestigioso latino.

E dove la porta questa strada?

Quello che trovo efficace sono le composizioni minimali, asciutte, silenziose. Con le mie opere cerco di creare vuoti che favoriscono il silenzio. Penso che l’uomo moderno, che in ogni istante viene “bombardato” da immagini visive, rimanga più colpito dalla sottrazione. Oggi colpisce più un’immagine asciutta che rimanda a un silenzio al quale non siamo più abituati.

Samuele Marchi