«I riti fanno sentire estranei e allontanano chi non è già dentro ai riti stessi»

L’uomo dispone di una risorsa potente: la sua intelligenza. Nel corso dei secoli, ha saputo servirsene per affrontare innumerevoli pericoli, per piegare l’imprevedibilità della natura e per costruire uno spazio relativamente stabile in cui vivere. La nostra società respira questa stabilità fondata dallo sviluppo umano e di conseguenza non c’è niente che la spaventi di più dell’insicurezza, dell’incomprensione, della precarietà. Lo avvertiamo bene in questo momento di guerra, di siccità, di malattia.

La liturgia fa riaffiorare tutto questo. Gli uomini e le donne di questo tempo sentono con una forza incredibile che la liturgia, coi suoi linguaggi, segni e riti, anziché rispecchiare la quotidianità e assecondare questo mondo con la sua pretesa di auto-stabilirsi, crea uno scarto, un senso di estraneità. E questo disorienta, persino spaventa. Nelle celebrazioni si fa l’esperienza di qualcosa di distante, non comprensibile, non abituale, non mio fino in fondo; esperienze vissute come un’abitudine, che possono generare l’indifferenza.

Si avverte questo disagio. Lo stesso percepito dai discepoli davanti al Maestro, alle sue parole e ai suoi segni, difficili, esigenti, ma dal sapore di eternità. Come quel giorno a Cafarnao, in riva al lago. Quando Gesù dice: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (Gv 6, 53), anche nei presenti serpeggia lo stesso nostro malessere: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Gv 6, 60). L’esito è amaro: «Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6, 66). È così: rischia di prevalere la perplessità, il sospetto che non possa essere quella la strada della felicità. E paradossalmente finisce che proprio Gesù, “modello unico della nostra vita” (S. Charles de Foucauld) appare quanto di più distante dalla realtà.

Eppure proprio qui si apre un inaspettato varco di libertà: se il nostro cuore è sincero, se osa quell’anticipo di fiducia che papa Benedetto XVI non si stancava di suggerire, allora incomprensione e distanza non ostacolano l’emergere in noi della stessa confessione di Pietro: «Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6, 67). Potremmo dire: benedetto disagio! Benedetta distanza! Benedetta incomprensione! Vuol dire che la liturgia sta funzionando, che ci sta portando fuori dalla nostra prospettiva per metterci in quella del Risorto.

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«Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 21, 15).

Ecco il primo rovesciamento. Al centro della liturgia non ci siamo noi, la comunità, l’assemblea, i laici, i ministri, il presbitero… solo “il Risorto è il protagonista” (scrive papa Francesco nella sua ultima Lettera apostolica Desiderio Desideravi, DD 57). Tutto parte da Lui e dal suo desiderio di donarci la vita vera, la gioia senza fine, che è l’amore increato, che è la Trinità.

«Ho tanto desiderato mangiare…»: tutto nella liturgia parte da Lui perché tutto possa prendere vita. «La liturgia dà gloria a Dio perché ci permette, qui, sulla terra, di vedere Dio nella celebrazione dei misteri e, nel vederlo, prendere vita dalla sua Pasqua» (DD 43). La liturgia è il cielo che ci tocca e ci trasforma. Per questo la Chiesa è chiamata a celebrare, nel tempo e nello spazio, questa Eucarestia, che è la continua celebrazione della Pasqua, della sua morte e risurrezione. La Pasqua, Cristo stesso, promuove il mondo riversando in esso l’amore di Dio («Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» Gv 3, 16), e, allo stesso tempo, lo contesta rovesciando la sua pretesa di bastare a sé stesso («Senza di me non potete far nulla» Gv 15, 5).

Ecco perché, fedele al suo Signore, la Chiesa non smette di ripetere che chi non mangia la sua Carne e non beve il suo Sangue non può avere la vita, perché solo Lui è la vita vera (Gv 6, 53). In Cristo, Dio si può toccare, si può vedere, si può ascoltare, si può gustare, si può percepire con tutti i nostri sensi perché «è tutto il creato che viene assunto per essere messo a servizio dell’incontro con il Verbo incarnato, crocifisso, morto, risorto, asceso al Padre» (DD 42). Dio è realmente presente, parla e agisce attraverso pane, vino, acqua, olio, parole, gesti, uomini, donne… cose e persone, tutta la realtà (DD 42)! Proprio a questi riti che tanto ci stanno stretti «non è possibile rinunciare perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo», scrive ancora papa Francesco (DD 44).

Questa è la sfida: cedere il volante e lasciarci educare, condurre, raggiungere dalla liturgia per confluire nel “noi” della Chiesa, dove siamo da sempre attesi e desiderati. Sarà questa dinamica di gratuità a creare familiarità e sconfinata gratitudine. Non si tratta solo di comprensione o di morale: lo scopo della liturgia non è primariamente il farci comprendere qualcosa o spingerci a fare qualcosa di buono: «la liturgia non riguarda la ‘conoscenza’ e il suo scopo non è primariamente pedagogico» (DD 41).
Queste sono cose giuste e derivano naturalmente dal suo vero scopo, ma la liturgia vuole primariamente che tutto viva di Lui, lo incontri, diventi Lui (DD 41). «La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è» (DD 10).

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La questione fondamentale è, dunque, questa: come recuperare la capacità di vivere in pienezza l’azione liturgica? La riforma del Concilio ha questo come obiettivo. La sfida è molto impegnativa perché l’uomo moderno – non in tutte le culture allo stesso modo – ha perso la capacità di confrontarsi con l’agire simbolico che è tratto essenziale dell’atto liturgico. (DD 27)

Il Papa chiede una duplice formazione: formazione alla Liturgia e dalla Liturgia (DD 34).
Abbiamo bisogno di studiare insieme, di comprendere le preghiere della Chiesa, i dinamismi rituali e la loro importanza umana (cfr. DD 35 e 36). Ma soprattutto abbiamo bisogno di lasciarci coinvolgere dai sacramenti, dall’Eucarestia, entrando attraverso i riti e le preghiere stesse, l’unica garanzia per una partecipazione attiva (come la intende il Concilio Vat. II, SC 48).

Vi invito, dunque, a entrare nelle celebrazioni con la consapevolezza che è il Signore il soggetto della celebrazione, non noi stessi.
Vi invito ad affidarvi ai riti, alle parole e ai gesti che nella loro particolarità e diversità ci manifestano il Mistero di un Dio che agisce, parla, domanda, invita… un Dio presente.
La Chiesa celebrerà il Risorto con gioia rinnovata se noi daremo spazio al Signore, se metteremo Lui al centro.

(Vescovo Mario, 5 giugno 2022).