A fianco degli ultimi, ieri come oggi. Il Centro di Ascolto della Caritas diocesana, inaugurato nel 1992, taglia il traguardo dei trent’anni di attività. Per raccontarci i primi anni di questo luogo, abbiamo intervistato Sheela Maryamma Antony, missionaria indiana dell’Ami, oggi in servizio in Tanzania, che ha prestato servizio al Centro di Ascolto dalla sua nascita, nel 1992, fino al 2005.
Un luogo di relazione
Il Centro di Ascolto “Monsignor Francesco Tarcisio Bertozzi” della Caritas dal 1992 è il luogo privilegiato in cui si intessono relazioni con i poveri o con le persone in situazioni di difficoltà, disagio o sofferenza. È segno dell’attenzione e della sensibilità della comunità cristiana verso i poveri, ma anche orecchio e sentinella dei fenomeni di ingiustizia. La prima sede del Centro di Ascolto fu in via Minardi 6, oggi invece ha sede in via D’Azzo Ubaldini, 5-7.
Intervista a Sheela, che ha vissuto i primi anni del Centro di Ascolto
Sheela, come è iniziato il tuo percorso al Centro di Ascolto?
Ero arrivata in Italia come missionaria nel 1990 e mi sono laureata come assistente sociale. Ho cominciato il mio servizio alla Caritas da zero, nel senso che non avevo mai avuto nessun tipo di esperienza del genere. Fu una richiesta da parte del vescovo monsignor Bertozzi, che da tempo portava nel cuore il desiderio di dare vita ad una struttura di carità nella diocesi. Mi ero appena laureata, non mi sentivo all’altezza dell’impegno, e il mio progetto all’epoca era tornare in India per aiutare la mia gente.
Cosa le fece dire sì?
Un po’ alla volta i miei responsabili nella fraternità delle missionarie mi hanno convinto. Successivamente sono stata felice di avere detto il mio sì portando avanti un servizio nella realtà di grande povertà presente nel territorio di Faenza, così poco evidente di primo acchito. Se non avessi lavorato al CdA non avrei mai saputo della presenza dei poveri che vivevano accanto a me.
Ho conosciuto donne laureate che andavano a cercare il cibo buttato nella spazzatura. E anche oggi non fatico a pensare ci siano tanti poveri lungo le nostre strade.
Come furono i primi anni?
Prima con suor Paola, poi con suor Elisa (le altre operatrici, ndr), l’idea era di fare un passo alla volta. Quando il Centro è stato inaugurato, funzionava solo qualche ora alla settimana. Per poterlo mantenere aperto 24 ore su 24 sono stati coinvolti tanti volontari: senza di loro sarebbe stato impossibile. All’inizio svolgevamo solo gli ascolti, poi sono nati altri servizi, come le docce e i pasti, che venivano ritirati dalla Gemos. Infine abbiamo dato vita all’accoglienza notturna e all’ambulatorio medico. C’è stata sempre un’idea di fondo: accogliere chiunque bussasse alla nostra porta. Nel fare questo era importante, e non sempre facile, far rispettare le regole, ma serviva per aiutare le persone.
Quali ospiti ricordi ancora oggi?
Per alcuni siamo stati madri, padri, sorelle, fratelli, zie, e zii, amiche e amici; abbiamo accompagnato qualcuno in carcere, altri al Commissariato, altri fino all’ultimo giorno della loro vita terrena. Ricordo in particolare un italiano che viveva in strada. Aveva 57 anni e suo figlio era morto in un incidente stradale. Da allora aveva perso la testa. Girava con un lenzuolo verde che usava come una valigia. All’interno non mancava mai del vino, era sempre ubriaco. Chi lo avesse visto, lo avrebbe definito ‘irrecuperabile’. Invece quel bussare alla porta del CdA ha dato una svolta alla sua vita. Al di là del supporto medico e burocratico, lo abbiamo accolto in una famiglia. Quest’altra cosa è importante: vivere questo incontro come una festa. È un po’ lo spirito Ami e quello che cercavamo di trasmettere a tutto il CdA durante i pranzi, le feste, con i volontari. Ricordo, come fosse ieri, la festa di carnevale che abbiamo fatto per gli ospiti del Centro: il loro sorriso, la felicità, la gioia, come erano scatenati a ballare. Ricordo anche una giovane coppia rumena arrivata con valigetta. Ci hanno detto: la nostra casa è questa qui. Avevano una gran voglia di lavorare, ma non trovavano un’occupazione. La donna si impegnò a pulire e lucidare tutto il CdA, poi lui trovò lavoro come benzinaio. Sono sempre tornati a salutarci: ecco, noi abbiamo accompagnato fianco a fianco queste persone in un momento di difficoltà. Oppure ricordo un ragazzo ghanese che veniva a chiederci di fare la doccia in dormitorio e oggi è un importante imprenditore che si ricorda ancora con affetto di me.
Cosa unisce queste storie?
La confidenza che si crea con le persone quando si spalanca il cuore. Dietro la domanda di un aiuto materiale c’è sempre una storia più grande. Non è facile trovare qualcuno che ti ascolta con la testa e con il cuore, mentre racconta la sua sofferenza. Ci eravamo presi un impegno: non guardavamo mai l’orologio durante i colloqui.
L’ascolto è solo una briciola, ma quello che arriva alla gente è tanto.
In cosa ti ha fatto crescere questa esperienza?
A vivere la Chiesa sorella. Ho dedicato la mia vita a servire il Signore ed essere missionaria per gli altri. Per fare questo non dobbiamo mettere radici da nessuna parte, ma andare ovunque. Negli anni in Caritas mi sono sempre sentita a casa e questa esperienza mi ha aiutato a vedere ogni persona come mio fratello o sorella, in qualunque parte del mondo.
Samuele Marchi