Da tempo papa Francesco parla di un «mondo frantumato» e di una nuova e terribile guerra mondiale «a pezzi» che riguarda il nostro secolo. La guerra in Ucraina ne è solo l’ultimo drammatico episodio. La convinzione di papa Francesco, come quella del suo predecessore Benedetto XVI, è che nel mondo, nonostante i molteplici segni positivi di solidarietà e di unità, ci sia troppa violenza, troppa ingiustizia. Di fronte a questo scenario, il vescovo monsignor Mario Toso propone la strada della nonviolenza, che non è silenzio o fuga di fronte alle aggressioni, al male, all’ingiustizia. Richiede coraggio e determinazione nel contrastarle efficacemente. Costituisce un’energia morale e spirituale che riqualifica e rifonda la politica e la stessa democrazia.

Il vescovo Mario: “Di fronte alla guerra non dobbiamo rifugiarci nel silenzio, ma perseguire scelte coraggiose”

Monsignor Toso, come mai nel XXI secolo la parola guerra è ancora così attuale?

All’origine della violenza e delle guerre stanno talvolta strutture, metodi, sistemi, meccanismi socio-economici, ideologie, che anziché servire l’uomo lo asservono. Le stesse ragioni dello squilibrio nello sviluppo fra i popoli possono considerarsi altrettante cause di violenza, se non addirittura di guerre. Rispetto a ciò urge contrapporre un di più di bontà, un di più di amore, che viene solo da Dio, come ha mostrato Cristo, avviando una vera e propria «rivoluzione» pacifica.

Che differenza c’è tra violenza e legittima difesa?

La violenza è tutto ciò che nega la persona umana nella sua dignità e nei suoi diritti fondamentali, nella sua crescita integrale. Mentre viene attuata snatura radicalmente il rapporto con gli altri, individui, gruppi e popoli. Diventa rifiuto sistematico dell’alterità, del dialogo, fino a dissolvere la convivenza in dominio materiale. La violenza non va confusa con la legittima difesa di se stessi e degli altri e con la coercizione. Infatti, se la difesa contro le aggressioni è storicamente associata all’impiego (o alla minaccia di impiego) di armi omicide, esistono, però, possibilità di difesa senza impiego di violenza. Così, la coercizione si qualifica come utilizzazione della forza per uno scopo determinato. Normalmente è messa al servizio del bene comune, per far rispettare comandi legittimi e per proteggere i più deboli.

Lei propone la nonviolenza come nuovo stile di politica di pace. Come attuarla?

Oggi la rivoluzione tecnologica ha dato alle armi una tale capacità di distruzione che può annientare le stesse società che vi ricorrono per difendersi da ingiuste aggressioni. La guerra moderna, sia essa classica, chimica o nucleare, diventa guerra totale, ossia violenza massima e criminale che porta allo sterminio dei contendenti e della stessa umanità. Più volte Giovanni Paolo II ha ribadito, sulle orme di san Giovanni XXIII, che la «guerra è in sé irrazionale e il principio etico del regolamento pacifico dei conflitti è la sola via degna dell’uomo». Le attuali politiche e strategie di guerra, la possibilità non platonica dell’olocausto nucleare mondiale, la stessa necessità di difendere i popoli, i cittadini e i loro beni con mezzi che non comportino la minaccia dell’annientamento, stanno accreditando sempre più l’azione nonviolenta come vera alternativa realistica alla violenza e alla guerra. Tale azione nonviolenta o, come anche viene detta impropriamente, «resistenza passiva», al pari della guerra, delle tirannie e delle ingiustizie, può avere diverse forme, in rapporto ai problemi in una data situazione. C’è, per esempio, la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, il boicottaggio sociale, lo sciopero anche generale, il picchettaggio, il digiuno, l’obiezione fiscale, la non collaborazione (resistenza non violenta), la difesa popolare organizzata o difesa civile non violenta, istituita da un governo come parte del suo piano di difesa, il governo parallelo. Tenendo conto, però, dell’ampiezza dei cambiamenti culturali e politici che questa scelta comporta, una tale via, per oggi, nonostante sia auspicabile e vada perseguita con tutte le forze, appare una prospettiva non realizzabile né a corto né a medio termine. Se non cambiano le cose anche a livello internazionale, sembra che la via della difesa civile non violenta sia destinata a coesistere per molto tempo con forme di difesa militare.

Che contributo deve dare la Chiesa per far sì che questa via si realizzi?

La Chiesa deve continuare a partecipare alla costruzione della pace mediante la non violenza attiva. Ciò è coerente con il suo essere, come annunciatrice e testimone di Cristo, prototipo della non violenza. Lo può fare proponendo norme morali, mediante la partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali, grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione delle leggi a tutti i livelli. In secondo luogo, la Chiesa deve continuare a proporre ai leader politici, ai responsabili delle istituzioni internazionali e ai dirigenti delle imprese e dei media quello che il Papa definisce il «manuale» della strategia della costruzione della pace, ossia le otto Beatitudini.

Samuele Marchi