Luca Bombonati, 24 anni, è nel consiglio direttivo di Independent Poetry di Faenza. “Nel 2016 curavo una mia rubrica, “Versi nel vortice” – racconta – che si occupava di poesia. Ho scoperto le serate di Indipendent Poetry con un volantino. Mi sono semplicemente presentato agli organizzatori durante una delle serate al bar Linus, proponendo una collaborazione. Da quel giorno in poi, ad ogni evento, ho intervistato gli autori ed è stata un’esperienza molto formativa”. Ha contribuito inoltre alla nascita dell’associazione Atelier Be con lo scopo di promuovere giovani artisti e ha fatto parte di Poliedro, un gruppo di dibattito che ha poi preso in mano la gestione del circolo Prometeo. Con lui proseguiamo il nostro itinerario su giovani e cultura.

Intervista a Luca Bombonati (Independent Poetry)

Quando hai iniziato a interessarti di poesia? Cosa ti attrae del linguaggio poetico?

Mi interesso di poesia da quando avevo 16 anni. In terza superiore pensavo più che altro allo sport ed ero indifferente in classe. La mia professoressa di Italiano riuscì a guardare oltre questi atteggiamenti adolescenziali, credette in me e questo mi fece prendere sempre più sul serio la letteratura, fino a che non divenne un’ossessione. Iniziai a riempire i quaderni di poesie. All’epoca facevo il dj nel weekend e con i primi soldi che ho guadagnato autonomamente comprai la “Vita Nova” di Dante. Questo per dire che, soprattutto con i ragazzi delle superiori, non bisogna fermarsi alle apparenze. Quello che mi attira del linguaggio poetico è la sua capacità di integrazione. Mi spiego meglio. Quando scrivi una poesia puoi dipingere e suonare con le parole. Ti basta una penna per farlo. Puoi fondere livelli espressivi molto complessi in un testo di poche righe, fissare un umore altrimenti inesprimibile, indugiare su un piccolissimo particolare e trovarci un mondo intero. Scrivere e leggere poesie fa comprendere la musica implicita della propria lingua, una musica che si può reggere benissimo da sola, senza strumenti. Inoltre, la fatica di far uscire un verso ha su di me un fascino enigmatico, è un gesto quasi magico.

In che modo il linguaggio della poesia può incidere nel mondo contemporaneo e nella vita delle singole persone?

La poesia può incidere nel mondo contemporaneo a tanti livelli. In ogni epoca questo strumento ha permesso di condividere il dolore, di comprenderlo e accettarlo. Non è un processo automatico, ma leggere poesie può aiutare moltissimo nell’educare alla compassione, come ci insegna la filosofa Martha Nussbaum. Inoltre, un aspetto della poesia che ha molto da insegnare alla nostra epoca, è la coesistenza di libertà e responsabilità. Scrivere una poesia ti mette nella condizione di potere esprimere davvero quello che vuoi, ma di farlo entro un certo schema, con ritmo e con un lessico non solo adeguato a ciò che si vuole esprimere, ma possibilmente perfetto, perché la profondità non si raggiunge credendo che una parola valga l’altra. E questa non è una severità imposta dall’alto, arbitrariamente, ma è il limite oggettivo che lo strumento ti pone ed è un limite possibilmente molto educativo. Infine, direi che la poesia ci obbliga ad indugiare sulle cose. Anche se a volte drammatizziamo troppo questo aspetto della vita moderna, non c’è dubbio che siamo tutti più distratti e che per la comprensione di certi aspetti fondamentali dell’esistenza questo è esiziale.

Giovani e poesia. Avete mai proposto progetti in tal senso? Al di là dello studio della tradizione letteraria, ha ancora senso avvicinare i giovani a questo tipo di linguaggio, intendendolo come qualcosa di ancora “vivo” e non del passato?

Innanzitutto, all’interno dello stesso consiglio direttivo dell’Independent poetry, su cinque persone che ne fanno parte, tre di queste hanno meno di trent’anni e nel nostro blog, QB, scrivono diversi autori in questa fascia d’età. Già solo questi fatti dicono molto sull’apertura dell’associazione. Durante le presentazioni che abbiamo fatto in questi anni abbiamo sempre lasciato una mezz’ora finale di microfono aperto per chiunque avesse un testo da condividere, così come durante le due edizioni del festival Tres Dotes e spesso a leggere venivano ragazzi o giovani adulti in procinto di pubblicare. Tra il 2017 e il 2018 abbiamo svolto laboratori poetici e organizzato incontri con gli autori nelle scuole. Oltre a ciò, c’è da considerare che ci capita spesso di collaborare con associazioni gestite prevalentemente da ragazzi dai venti ai trent’anni. Insomma, le iniziative ci sono state, ma è proprio nello spirito dell’associazione ascoltare le persone per i contenuti che portano senza guardare all’età. Le reazioni sono sempre state ottime e lo dico senza retorica. Ha assolutamente senso presentare ai ragazzi il linguaggio poetico come qualcosa di vivo, è esattamente quello che facciamo, perché siamo convinti del potere trasformativo di questo strumento.

Quali progetti metterete in campo prossimamente con Independent Poetry?

La rassegna 2022 è cominciata il 6 aprile con un focus sull’opera “L’Amore dei lupi” di Alessandro Brusa. Abbiamo in programma altre tre serate da qui fino a Giugno che spaziano dalla presentazione del libro “Vivi nella parola. I sepolcri dei poeti romagnoli” scritto da Nevio Spadoni e dal docente Fabio Pagani; all’esordio poetico di Michele Donati, ad una serata dedicata all’ultimo libro del poeta Stefano Simoncelli. A Luglio terremo alcuni laboratori dedicati esclusivamente agli associati e organizzeremo preludi poetici agli eventi della scuola di musica Sarti. C’è anche in cantiere la volontà di riportare i laboratori nelle scuole, di cui c’è sicuramente bisogno dopo questi due anni di difficoltà.

“Vogliamo portare la poesia nelle strade e nei luoghi della vita”

In questi anni, guardando indietro al tuo percorso, qual è stata la chiave vincente della tua/vostra proposta culturale?

Se penso al caso dell’Independent Poetry, la nostra chiave vincente è stata la convinzione che la poesia, anche la buona poesia, possa arrivare ovunque, letteralmente. Abbiamo portato i poeti a leggere nei bar, per la strada, nei parchi, anche alla stazione. Non ci siamo mai sentiti superiori a nessuno e lo abbiamo dimostrato nei fatti. Questa indipendenza l’abbiamo sempre mantenuta, anche nel rapportarci a grandi autori che poi ci hanno apprezzato per questo. La creazione di un legame, infatti, è un’altra nostra carta vincente. Abbiamo creato una rete di poeti in tutta Italia perché ci piace approfondire i rapporti, anche se a volte può essere difficile, anche se a volte vanno male. Il merito di questo spirito, in grande parte, va a Monica Guerra, la presidente della nostra associazione, che lo incarna. Io, personalmente, mi sono sempre sentito bene con questi presupposti. Posso solo aggiungere che nelle altre associazioni che ho contribuito a creare, o in cui ho fatto anche solo una piccola parte, ho sempre cercato di fare quello che mi piaceva, che mi faceva stare bene e così molte delle persone con cui ho collaborato. La chiave vincente è avere un ambiente rilassato e appagante; se c’è quello si è disposti a lavorare tantissimo.

I punti di forza e di debolezza di Faenza in ambito culturale

A tuo parere, in cosa Faenza deve migliorare a livello di offerta culturale? E quali sono invece i punti di forza?

L’unico aspetto che forse si potrebbe migliorare, o perlomeno, l’unico che mi viene in mente, è l’offerta per il mondo universitario faentino. Penso all’Isia o alla facoltà di infermieristica, per esempio. Mi è capitato, sia nel mondo delle associazioni che da singoli studenti, di sentir parlare di una sorta di carenza da questo punto di vista, come se mancasse qualcosa per includere gli studenti fuori sede. Forse è solo una percezione, ma non sempre le percezioni vanno sottovalutate. Conosco diversi giovani che hanno idee a riguardo, in un’ottica propositiva. Vedremo. Il punto di forza di Faenza, a mio avviso, coincide con la sua debolezza: la dimensione provinciale. Se da un lato è strutturalmente impossibile avere gli stessi orizzonti che si possono avere in un grande centro, allo stesso tempo non bisogna sottovalutare la potenzialità comunitaria che permette una città come questa. La vicinanza tra chi propone un’iniziativa e chi ne fruisce è un grande valore, di cui è facile dimenticarsi all’ombra dei grandi sogni promessi dalle metropoli, in cui però si rischia l’individualismo.

Ritieni che il mondo culturale faentino riesca a valorizzare realmente i giovani? Oppure riscontri una certa chiusura?

Sì, mi sembra che il mondo culturale faentino riesca effettivamente a valorizzare i giovani che vogliono mettersi in gioco, non ho mai ravvisato una chiusura aprioristica a riguardo. Penso che gli impedimenti più grandi che possa riscontrare un giovane attivista di qualsiasi tipo siano, in buona sostanza, problemi che riguardano l’Italia in generale. Non è impossibile incontrare adulti che non ti prendano sul serio ed è difficile divincolarsi all’interno della burocrazia. Detto questo, forse perché sono troppo ottimista, non riesco a vedere altre peculiari difficoltà nel portare cultura a Faenza.

Cosa interessa, in particolare, ai giovani a livello culturale? Ci sono stereotipi o pregiudizi da superare?

Come dicevo, prima di tutto non bisogna fermarsi alle apparenze, specialmente con gli adolescenti, che fanno mostra di indifferenza alla cultura, ma soltanto come sfida, perché in realtà sono i primi ad avere un gran bisogno di esprimersi. Un altro preconcetto da superare, che ha un grande ruolo nel dare un’immagine negativa dei giovani di oggi, è il restringere l’ambito della cultura a quello che i programmi scolastici nazionali indicano come tale. Quanti giovani guardano anime, leggono manga, ascoltano musica elettronica sperimentale o, in alcuni casi, sognano di programmare videogiochi dalla trama complessa? Non possiamo pensare, se non con molto paternalismo, che i ragazzi dovrebbero interessarsi ad altro, né che queste forme d’arte, così come la moda per esempio, non abbiano una loro dignità. Anzi, chiunque scriva poesie, romanzi o, che so, pensi di girare un film che resti nella storia del cinema, non può ignorare tutte queste influenze. Poi, almeno nella mia esperienza, ho incontrato molti ragazzi, dai sedici anni in su, appassionati dei grandi classici della letteratura, del teatro, della storia dell’arte e via dicendo. Le sfide non mancano, ma non bisogna farsi abbattere.

Qual è stata la soddisfazione più grande che hai vissuto in questi anni in ambito culturale?

Mi prendo la libertà di rispondere non con una, ma con due grandi soddisfazioni. Prima di tutto vado fiero di aver contribuito in vario modo alle edizioni del festival “Tres Dotes” a Tredozio, organizzato da Independent Poetry nel 2018 e nel 2019. In quell’occasione l’associazione ha curato, in collaborazione con il Comune di Tredozio, oltre sessanta eventi di poesia, con la partecipazione di cinquanta poeti contemporanei, trenta open mic per il pubblico e il coinvolgimento di diverse case editrici indipendenti. In secondo luogo sono orgoglioso di essere stato parte dell’organizzazione del festival Be Art nel 2017. In quell’occasione l’associazione di riferimento era Atelier Be, fondata da me, Tommaso Cappelli e Giacomo Foschini. Il festival era fondamentalmente una mostra, con più di 70 ragazzi che hanno avuto l’opportunità, alcuni per la prima volta, di mostrare le loro opere (disegni, illustrazioni, fotografie, pittura e altro) al pubblico. C’è stato anche un workshop e due serate di festa con un ottimo flusso di persone. In entrambi i casi il lavoro è stato tantissimo, ma i risultati sono stati indubbiamente ottimi.