Il 15 febbraio il referendum abrogativo dell’articolo 579 del codice penale (omicidio del consenziente) è stato bocciato dalla Corte Costituzionale che lo ha giudicato inammissibile. In attesa della motivazione ufficiale, che dovrebbe essere depositata a giorni, l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte costituzionale ha reso noto che la Corte ha ritenuto inammissibile il quesito perché, a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mirava, non sarebbe stata preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili.
In buona sostanza, si è ritenuto di far prevalere la tutela della vita, quale valore costituzionalmente tutelato, rispetto al diritto all’autodeterminazione dell’individuo, che oggi sempre più si vorrebbe estendere fino a ricomprendere non solo il diritto a porre fine alla propria esistenza, ma anche il diritto a far partecipare altri all’azione omicida. Non c’è dubbio che l’omicidio del consenziente, oltre alla libertà del morente, mette in gioco innanzi tutto quella del soggetto che provocherà la morte.
A saper leggere l’effetto dell’abrogazione che si era proposta col referendum, la norma giuridica che ne sarebbe derivata avrebbe previsto che non sarebbe stato penalmente punibile chiunque avesse cagionato la morte di un essere umano d’età maggiore di anni 18, col consenso di quest’ultimo, purché tale consenso non fosse estorto con violenza o minaccia. Tante sono le ragioni che vorrebbero legittimare un vero e proprio diritto a disporre della propria vita: si va da una malintesa concezione di libertà che non dovrebbe trovare limiti quando si parla dell’esercizio di diritti che attengono alla sfera personale, fino a considerazioni di tipo economico nel sostenere che un malato che decide di togliersi la vita costituisce un risparmio per lo Stato, non più costretto a impegnare il proprio Servizio sanitario nazionale per cure costose e magari senza speranza.
Ragioni facilmente trasformabili in slogan che convincono la gente sull’onda di casi emotivamente toccanti.
Alla base di queste concezioni semplicistiche credo vi sia il venir meno della comprensione di due aspetti fondamentali della natura umana: da un lato il senso della sacralità della vita, come dono che ci è dato da Dio; dall’altro lato, il senso della sofferenza umana, difficile da capire senza ricordare che Dio stesso, fattosi uomo, ha scelto quella strada per redimere l’umanità.
Ma anche per chi non crede, esistono ragioni logiche che inducono a comprendere che persino chi ha adottato un concetto di libertà intesa come assoluta assenza di limiti sarebbe perfettamente in grado di riconoscere che la stessa libertà non è priva di condizioni. Infatti, sarebbe inconcepibile un contratto con cui si stabilisse la riduzione in schiavitù di una persona, sia pure col suo consenso.
Altrettanto ragionevole a tutti appare la previsione dell’articolo 5 del codice civile, ai sensi del quale: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica…”.
Nessuno riterrebbe conforme a ragione prevedere contratti coi quali si possa disporre del proprio cuore o di un occhio perché si verrebbero a legittimare accordi aberranti in quanto produttivi della morte e della permanente menomazione di una persona.
In questo caso nessuno si scandalizza a sentir spiegare che la protezione della integrità fisica della persona costituisce attuazione della tutela accordata dalla Costituzione alla salute (articolo 32) ed alla libertà (articolo 13). Lo Stato interviene a presidiare un diritto fondamentale dell’individuo, vietando atti che sarebbero posti in essere dallo stesso titolare della situazione giuridica soggettiva tutelata.
Invece il referendum, per come proposto, valorizzava il “consenso ad essere uccisi”, facendolo prescindere dalla condizione di grave malattia o di situazione di estrema sofferenza, che con rapacità mediale viene spesso invocata a sostegno dello stesso. Ne consegue che l’accordo omicida si sarebbe potuto fondare non solo sulla pietà, ma anche su rapporti in qualche modo economici e, dunque, sulla convenienza dell’uccisore, più che sulla dignità del morente. Ecco allora svelata la capziosità del ragionamento, smascherato dalla Corte Costituzionale: si sarebbe stati liberi non già di “morire”, ma di uccidere sol che il morente fosse stato d’accordo, non si capisce in quale modo manifestando o provando questo consenso.
Non si tratta allora di punire o vietare il consenso alla propria morte (ciò, del resto, non è vietato e punito neppure ora!), ma di stabilire se si possa in sé punire chiunque uccida un uomo solo perché quest’ultimo ha acconsentito alla sua morte. E ancor di più occorre domandarsi se anche questa “facoltà di uccidere chiunque voglia morire” possa essere sostenuta socialmente e resa oggetto di insegnamento per i cittadini di domani. Non è vero, dunque, che la legittimazione dell’eutanasia sia la sola alternativa allo stato delle cose oggi vigenti: ben si può operare attraverso un sapiente e delicato intervento legislativo ad hoc, che salvaguardi l’indisponibilità della vita umana, ma che si faccia anche carico della sofferenza e della fragilità umana.
Paolo Bontempi