Una chiesa dalle porte sempre aperte. Così Maria Mirella Barbieri, medico del Pronto soccorso all’ospedale di Faenza, definisce questo luogo dove ogni giorno si entra in contatto con tante fragilità umane, sia dal punto di vista fisico che psicologico.  Un lavoro al fianco di chi soffre, con la consapevolezza di essere, con la propria passione e competenza, uno strumento al servizio di Dio. «In Pronto soccorso dobbiamo rispondere non solo alle patologie immediate – ci dice -, ma anche a bisogni più latenti. Mi piace vedere il pronto soccorso come una chiesa sempre aperta nella quale le persone trovano accoglienza. Si tratta di un reparto particolare. Il valore del tempo qui è fondamentale. Bisogna garantire la rapidità delle operazioni, ma è altrettanto importante dedicare il giusto tempo all’ascolto e alla cura di chi abbiamo di fronte».

Intervista a Maria Mirella Barbieri: “Siamo strumenti di Dio per aiutare i nostri fratelli”

Rapidità e ascolto. Sembra una contraddizione.

In un certo senso sì, ma fa parte di questo lavoro: dobbiamo scegliere quanto tempo dedicare a ogni singola persona e per qualcuno può essere molto importante quella parola detta in più che dà risposta a un bisogno.

Cosa ha cambiato la pandemia?

All’inizio con l’uso dei dpi è stato difficile mantenere una dimensione umana nella relazione con le persone. Oggi siamo più preparati nel gestire questo aspetto. La difficoltà maggiore è stata quando non si poteva far stare i parenti vicini alle persone care in un momento di sofferenza. Abbiamo cercato il più possibile di supplire facendo noi, operatori sanitari, da tramite di comunicazione. Si è cercato in tanti modi di superare questa barriera – penso per esempio alle stanze degli abbracci -, ma il fatto di non poter avere le persone care vicine è una sofferenza che non si riesce pienamente a colmare. Mi preme sottolineare oggi l’aspetto della solitudine. Un anziano che arriva al Pronto soccorso può portare non solo un male fisico da curare, ma anche una richiesta di aiuto dal punto di vista umano.

Com’è la situazione oggi?

Ci sono ancora tanti ricoveri. La nuova variante Omicron è più diffusa, ma fortunatamente meno aggressiva. I pazienti più gravi in prevalenza sono non vaccinati.

Come dialogare con chi non vuole ricevere cure o vaccini?

Rispetto al passato, ci troviamo a dover discutere di più con la persona interessata sulla terapia da mettere in atto. Una volta ci si affidava di più all’iter indicato dai medici, oggi basta un articolo letto sul web per mettere in discussione tutto. Per questo nel nostro ruolo non deve venire mai meno la capacità di dialogo ed empatia, mettendo in campo una rete di professionisti che lavorano insieme. Anche sul tema del fine vita, su cui ha scritto il vescovo, questi aspetti sono importanti. La cultura della cura riguarda tutti gli aspetti integrali della persona.

Sei anche ministro straordinario dell’Eucaristia.

Portare Gesù mi fa sentire ancora più completa come persona e come cristiana. Svolgere questo servizio, in ospedale e in tempo pandemia, è stata una grande testimonianza di fede per me e per gli altri.

Quali sono i segni di speranza che emergono da questa pandemia?

Sicuramente la fraternità e l’aiuto reciproco tra tutti gli operatori sanitari. In tempi così complessi, come quelli che stiamo vivendo, si capisce cosa conta veramente nella nostra missione.