Don Renato Rosso è un sacerdote della Diocesi di Torino che, fin da quando era seminarista, ha scelto di avvicinare le Comunità dei nomadi per diffondere fra esse il messaggio dell’Amore universale. Cominciò con una comunità insediatasi a Torino, poi, ordinato presbitero chiese di poter operare in Brasile. Successivamente si trasferì in India e Bangladesh, poi anche in Indonesia e infine in Israele, dove ultimamente trascorre alcuni mesi ogni anno per svolgere le mansioni di confessore per i visitatori provenienti dall’estremo oriente. Il suo peregrinare è dovuto alla continua ricerca delle comunità nomadi che maggiormente vivono in difficoltà. Per dimostrare solidarietà verso i nomadi, si costruisce una misera abitazione, identica a quelle dei nomadi e vive in simbiosi con loro. Se i nomadi vivono su una barca, chiede ospitalità a una famiglia e si costruisce un rifugio sulla barca che la famiglia usa quotidianamente.

Nella mia ultima visita in Bangladesh ho avuto modo di visitare la comunità in cui viveva e di vedere la sua casa. È stata costruita con assi di legno recuperate, e ha una dimensione di due metri per due e una altezza di un metro e mezzo. Dentro ci può stare una sola persona, sdraiata o in ginocchio. Pur vivendo come ultimo fra gli ultimi e disporre di esigue somme di denaro, perché è difficile per lui riceverne, nel corso dei decenni della sua missione, ha portato a termine progetti di alfabetizzazione molto importanti. Grazie a questi progetti, figli di nomadi pastori si sono anche laureati e stanno promuovendo la scolarizzazione dei fanciulli delle loro comunità. Per me è una figura straordinaria. Provo sempre una grande emozione a incontrarlo. Starei ad ascoltarlo per ogni istante del tempo che mi concede quando ritorna in Italia. Poco tempo fa, mentre si apprestava a ripartire per il Bangladesh ho avuto modo di porgli alcune domande.

Intervista a don Renato Rosso

Che speranza hanno gli ultimi in mezzo ai quali vivi, di vivere quella vita che noi consideriamo normale?

Vedi, al mondo ci sono cinque stati nei quali l’età media di vita è al di sotto dei 20 anni. Due stati arrivano alla allucinante media di 15 anni di speranza di vita. Una persona mi disse che questo dato non poteva essere vero. Gli risposi che purtroppo era invece esatto ed era riportato dall’Opam e da altri organismi. Gli dissi anche che avrà letto o ascoltato che ogni giorno 45mila bambini muoiono per denutrizione.

Purtroppo, ci siamo ormai abituati ad ascoltare notizie che ci elencano tragedie immani: cristiani e individui che professano altre religioni che devono fuggire dal loro Paese, per cercare la salvezza in Occidente, ma vengono duramente respinti alle frontiere. Molti muoiono durante l’estenuante cammino verso la speranza di una vita migliore. Nessuno pensa che il fuggiasco, o il morto di domani potrebbe essere suo fratello, o, sua sorella. Quando i numeri riguardano gli altri, si riducono a “pochi” e “tanti”. Il problema del Terzo Mondo lo abbiamo di fatto rimosso, per vivere senza farci troppi problemi.

Noi singoli dobbiamo sentirci responsabili delle sofferenze degli ultimi? Cosa possiamo e dobbiamo fare per non sentirci corresponsabili?

Non siamo andati noi, personalmente, a compiere le rapine dell’oro, del rame, delle pietre preziose e altri minerali o prodotti. Non siamo andati noi a massacrare milioni di indios nelle loro foreste, né siamo andati a deportare milioni di africani dalle loro terre. Non li abbiamo commercializzati nelle nostre piazze. Non siamo andati noi con elicotteri a sterminare popoli interi per occupare le loro terre. Si, sono stati altri a fare tutto questo, ma noi ne abbiamo diviso gli utili e ci siamo abituati a un benessere nel mangiare e nel vestire, nel tempo libero, nelle feste. Abbiamo così prolungato gli anni della nostra vita. Abbiamo alzato muri per difendere i nostri beni e per impedire che i profughi ci venissero a chiedere dei risarcimenti morali per i benefici che stiamo godendo: nel nostro caso, anni di vita.

Se poi qualcuno riesce a scavalcare quel muro ed arriva a Lampedusa, lo si considera un aggressore e si grida: “Basta, sono già troppi”. Anche se papa Francesco va a pregare proprio là, qualcuno aggiunge: “Bisogna cacciarli a cannonate”! Se io vivessi in un Paese in cui l’età media è 15-20 anni, fuggirei a nuoto per raggiungere qualsiasi spiaggia dal mondo.

Cosa deve fare ciascuno di noi per non sentirsi colpevole di tanta ingiustizia?

Ciascuno cerchi di vivere considerando l’ultimo suo fratello, dimostrandogli solidarietà, nel limite del possibile. Quando ciascuno di noi incontra uno di questi ultimi che vivono nelle nostre città, lo guardi con un sorriso. Lo saluti come se lo conoscesse da tempo e gli auguri una buona giornata. È una cosa da niente, che però reca sollievo nell’animo di colui verso il quale va il nostro sguardo.

Raffaele Gaddoni

Nella foto: don Renato Rosso, a sinistra, intervistato da Raffaele Gaddoni