Un sacerdote capace di guardare lontano e stare a fianco dei giovani. Un mettersi accanto a loro in tante piccole attività quotidiane – una gita in bicicletta, una passeggiata a Gamogna, una recita – per costruire assieme un percorso umano e di fede capace di portare lontano. Risate e divertimenti, ma anche studio e lavoro. È impossibile sintetizzare in poche parole gli oltre trent’anni di esperienze che don Stefano Belli ha lasciato in eredità a Sant’Ippolito. Venerdì 26 novembre ricorrono i cinquant’anni dalla morte di questo sacerdote rimasto nei cuori di tante persone. Un prete che nella sua semplicità si dimostrava un passo avanti rispetto ai suoi tempi, e che segnò profondamente la vita di Sant’Ippolito dal 1935 al 1971.
Un sacerdote che lasciò il segno

«È stato un parroco molto amato – lo ricorda Ivo Garavini – dalla grande cultura, conosceva perfettamente le lingue classiche, tanto che all’estero, con altri sacerdoti, parlava in latino». Don Belli riuscì a intercettare i bisogni e le esigenze dei giovani di Sant’Ippolito offrendo loro uno spazio in cui sentirsi protagonisti, dai giochi assieme fino a esperienze più significative. L’arrivo e diffusione a Faenza del mah jong lo si deve anche a lui, quando acquistò il gioco a Ravenna nel 1956, «e ci potevano giocare solo i ragazzi dai 20 anni in su…» precisa Garavini. Oppure la prima squadra di baseball a Faenza, l’acquisto di biciclette da corsa, che permetteva ai giovani di fare escursioni nelle vallate mentre lui li seguiva con la sua immancabile Vespa. «Aveva sempre lo sguardo ironico, dietro cui c’era tanta intelligenza e comprensione – lo ricorda Maria Rosa Venturi -. Le prime gite le ho fatte con lui: siamo andati a Venezia, a Padova e in tanti altri luoghi. All’epoca, parlo degli anni ‘50 e ‘60, le ragazze non avevano molte possibilità di svago, e proprio in quegli anni, grazie a don Belli, abbiamo potuto fare passeggiate; ne ricordo in particolare una da Gamogna all’Acquacheta».
L’aiuto ai giovani di Sant’Ippolito
Fu proprio nelle occasioni di incontro che offriva don Belli, prima e dopo la benedizione domenicale, che tanti giovani di Sant’Ippolito strinsero amicizia, ascoltando e ballando sulla musica di un giradischi o guardando assieme Lascia o raddoppia sul televisore acquistato proprio dal parroco. Occasioni di svago, a cui abbinava momenti formativi e culturali da cui nascevano poi relazioni forti e autentiche capaci di cambiare il destino di una persona. «Don Belli era amico del cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna – spiega Garavini – e grazie a lui riuscì a fare in modo che diversi giovani meno abbienti della parrocchia potessero trasferirsi e iscriversi all’università di Bologna. Il patto era che mantenessero una media dei voti alta e che d’estate si impegnassero a lavorare nei campi». E uno dei giovani aiutati da don Belli è stato il medico Sante Tura, morto recentemente, che così lo ricordava nel volume La S.Ippolito di don Belli pubblicato per il ventennale della morte. «Don Belli è stato un uomo vero – ha scritto Tura – dotato di un’intelligenza al di sopra del comune. Egli è giunto in una parrocchia tra le più povere della comunità faentina. La scarsa cultura delle famiglie parrocchiali avevano generato figli destinati a un futuro sociale modesto. Don Belli si è fatto carico di colmare questo vuoto».
Insegnante di Religione all’Istituto d’Arte, lo ricorda così anche Bruno Banzoli, all’epoca suo alunno: «Era sempre disponibile, pronto a darmi spiegazioni sui dubbi e perplessità che immancabilmente nel crescere mi ponevo. Nelle discussioni di Religione ti sorprendeva con aneddoti e battute ironiche per mettere a proprio agio la scolaresca nell’affrontare argomenti importanti e seri». Ce lo immaginiamo in aula con quello sguardo ironico e acuto, che tanto servirebbe oggi per leggere la complessità del presente.
Samuele Marchi