Il Concilio di Trento, nel decreto della XXV e ultima sessione (3- 4 dicembre 1563), aveva ribadito la grande importanza delle immagini sacre recuperando il pensiero di Gregorio Magno che già all’inizio del VII secolo, scrivendo a Sereno, vescovo di Marsiglia, affermava: “Ciò che è la scrittura per coloro che sanno leggere è, per gli analfabeti che la guardano, la pittura, perché in essa coloro che non conoscono le lettere possono leggere, per cui, principalmente, la pittura serve da lezione per le genti”.

Pochi anni più tardi il card. Gabriele Paleotti, arcivescovo di Bologna, committente, teorico del fenomeno artistico, amico di scienziati e pittori, pubblicò il Discorso intorno alle immagini sacre et profane (1582), nel quale dedicò qualche cenno anche a “quei che fanno imagine e lavori di terra cotta”, vivendo in un’età in cui, accanto alla pittura delle pale, dedicata alle chiese, si era sviluppata un’attività artistica diretta a una devozione casalinga, destinata alle famiglie e frutto di una committenza diffusa.

Assai importante per la nostra comunità fu poi l’intervento del vescovo Ascanio Marchesini, inviato da Gregorio XIII come Visitatore Apostolico nelle Diocesi di Faenza, Imola e Bologna, che comandava che “nelle porte esteriori di ciascuna chiesa parrocchiale o cappella si dipingano le immagini dei santi titolari” (Lanzoni 1925, p. 287).

A Faenza furono collocate targhe devozionali su più di ottanta edifici sacri

In seguito a queste disposizioni, a Faenza furono collocate targhe devozionali su più di ottanta edifici sacri e da questi, “con molta probabilità, l’uso si estese sugli stabili in qualche modo a essi collegati, fino a divenire, come ancor oggi si vede, un fenomeno di dimensione popolare” (Cecchetti 1991, p. 162).

Di solito riferibili a specifiche tradizioni locali, le targhe devozionali presentavano simboli teologici “alti” insieme a “concettualizzazioni elementari e pragmatiche”, e quasi sempre derivavano dalle stampe, che venivano di solito semplificate mentre, nel contempo, erano esaltati alcuni dettagli che rimandavano all’archetipo, “secondo una selezione che ha significazioni del tutto popolari” (Cecchetti 2000, p. 70).

È il caso della secentesca targa ottagonale con i due fori per l’aggancio con fili passanti per l’affissione praticati prima della cottura, come un quadro dipinto in unicum contro il bianco della maiolica, con pochi colori, come il turchino “diluito, stinto, in rapide pennellate” che serve anche per la doppia filettatura della cornice, il “giallo d’uovo” e l’arancio intenso, “un verde pistacchio un po’ greve e coprente”, il manganese usato anche per il disegno, e tocchi generalmente veloci, secondo il ductus compendiario.

Nella targa la Vergine è rappresentata in una posa disinvolta, seduta sulle nuvole raccolte in grossi cumuli in alto, con l’aureola limitata da un contorno di perline e raggiata; ai suoi piedi è una coppia di cherubini alati, che ritorna nelle nuvole che la circondano, con le stesse caratteristiche, in alto. Le sette spade conficcate nel suo cuore simboleggiano i sette dolori, momenti drammatici della sua vita:

1 – La profezia del vecchio Simeone sul Bambino Gesù (Luca 2, 34- 35),

2 – La fuga in Egitto della Sacra Famiglia (Matteo 2, 13- 21),

3 – La perdita del Bambin Gesù nel Tempio (Luca 2, 41- 51),

4 – L’incontro con Gesù lungo la Via Crucis (dalla Tradizione),

5 – La stazione ai piedi della croce dove Gesù è crocifisso (Giovanni 19, 25- 27),

6 – L’accoglienza nelle sue braccia del Figlio morto (dalla Tradizione),

7 – La presenza alla sua deposizione nel sepolcro (dalla Tradizione).

In basso, ai suoi piedi, si trovano due Santi, uno vestito di nero, con il pastorale accanto a sé. Si tratta di San Benedetto? O di San Filippo Benizzi? Nella chiesa di Santa Maria dei Servi a Faenza la pala del Mastelletta all’altare maggiore, perduta con la guerra, ritraeva tra i Santi, sotto la Madonna in gloria, anche quest’ultimo, che fu Generale dell’Ordine dal 1267, e San Lorenzo, che indossa la dalmatica da diacono e tiene con la mano sinistra la graticola, simbolo del suo martirio. Sono colti entrambi nel gesto dell’intercessione, sullo sfondo di un paesaggio montuoso in cui gli elementi di natura sono elementi di colore piuttosto che di pensiero. Li separa al centro lo stemma dei Serviti, realizzato dalla sovrapposizione di “S” (Servi) e “M” (Maria), due lettere sormontate da una corona con sette gigli, indicanti i Santi fondatori dell’Ordine. Erano questi sette nobili fiorentini della compagnia dei Laudesi che, il 15 agosto 1233, mentre esprimevano cantando il loro amore alla Madonna davanti a un’immagine dipinta su parete di una via, come i giullari facevano con la donna amata, videro improvvisamente l’immagine animarsi, addolorata e vestita a lutto per l’odio fratricida che divideva Firenze.

Essi allora indossarono un abito parimenti a lutto, istituirono la “Compagnia di Maria Addolorata” e si ritirarono in penitenza e preghiera sul Monte Senario. La devozione alla Addolorata, coltivata dai Serviti nel corso dei secoli, fu approvata ufficialmente solo nel 1667 dalla Sacra Congregazione dei Riti, che permise di celebrare la Messa votiva dei Sette Dolori il 9 giugno 1668. È attorno a questi anni che può datarsi la targa, nata con tutta probabilità nella più importante bottega del Seicento faentino, quella che- ricorda Ballardini- dagli Accarisi, attraverso Francesco Vicchi e i “Giorgioni”, passò a fine secolo (1693) al conte Annibale Carlo Ferniani insieme a gran parte della suppellettile.

Le spade conficcate nel cuore della Vergine hanno la medesima fattura, e la sua posa è in controparte rispetto a quella di una targa settecentesca di collezione privata, uscita dalla Fabbrica: i due manufatti derivano dunque da una stampa, prodotta forse a Bologna, o a Forlì, o nella stessa Faenza, dove operava in quel tempo la famiglia Zarafagli.

Nella foto, Faenza, Bottega dei Giorgioni (?), Addolorata e Santi con stemma dei Servi di Maria (recto), Sec. XVII, seconda metà, targa in terracotta maiolicata e policroma, forma ottagonale, Coll. privata.

Luisa Renzi