Sono arrivati il 13 luglio all’aeroporto di Fiumicino 34 profughi provenienti dall’isola greca di Lesbo. Hanno vissuto gli ultimi anni nel campo profughi di Moria, in condizioni abitative e sanitarie drammatiche. Si tratta di famiglie e minori non accompagnati che fuggono da Paesi dove non è più possibile vivere a causa di guerre violente ed estrema povertà.

Due ragazzi minorenni, provenienti dal Pakistan, sono stati accolti a Faenza, rispettivamente in una Casa Famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII e in una famiglia aperta all’accoglienza, che ha ricevuto l’idoneità all’affido. Il progetto è sostenuto dal Comune e si colloca nella cornice dei corridoi umanitari, resi possibili grazie al protocollo firmato da Comunità di Sant’Egidio e Ministero dell’Interno, nonché dalla collaborazione delle autorità greche e del sostegno della Commissione europea.

Lo scopo è favorire, in modo legale e in sicurezza l’arrivo di richiedenti protezione internazionale, con particolare attenzione ai soggetti più vulnerabili per i quali risulta urgente un percorso di inclusione.

L’intervista ad Andrea Bendandi, padre della casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, “Marta e Maria”

Aprire le porte della propria casa e del proprio cuore a chi cerca accoglienza. Andrea Bendandi è padre della casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII “Marta e Maria” di Faenza. Con la moglie Chiara – oltre a due figli di 12 e 10 anni e una figlia adottiva di 8 – ha accolto altri cinque ragazzi fra i 17 e i 30 anni di cinque nazionalità diverse.

L’ultimo è un ragazzo minorenne pakistano arrivato a Faenza tramite corridoi umanitari dai campi profughi dell’isola di Lesbo, in Grecia.

Qual è la sua storia?

È uguale a quella di tanti ragazzi che partono dal Medio Oriente verso l’Europa: sono partiti anni fa, poco più che bambini. Hanno girovagato fra Afghanistan, Iran e Turchia, fermandosi in varie città e lavorando in nero. Sono stati perseguitati dalla polizia e maltrattati dai trafficanti, poi sono riusciti ad arrivare in Grecia dove sono fermi da molti mesi in attesa che venga vagliata la loro domanda di asilo, ma anche qui la polizia ha avuto la mano pesante. Il nostro ragazzo ha passato 24 giorni in un carcere per adulti senza motivo. Poi sono stati intercettati dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla nostra realtà presente ad Atene e gli è stata proposta la possibilità di venire in Italia tramite corridoi umanitari.

Com’ è stato l’impatto?

Lui e l’altro ragazzo accolto a Faenza sono con noi da pochi giorni e per loro è stato uno shock: nonostante desiderassero una famiglia non si aspettavano una differenza tale rispetto agli stili di vita. Il primo giorno il nostro ragazzo ha digiunato, poi lo abbiamo fatto cucinare e ha accettato di mangiare e, in seguito, ha cominciato ad assaggiare qualcosa di quello che offrivamo. Parla qualche parola di inglese, infatti la lingua è l’ostacolo principale. Per fortuna i nostri figli sono stati molto accoglienti con lui e col gioco sono riusciti a strappargli un sorriso. Ci vorrà tempo per farlo sentire a casa.

Quale ricchezza può offrire loro la realtà della casa famiglia?

Vuole essere una famiglia per lui, tenendo presente che ancora una famiglia ce l’ha e quindi rispettando le sue radici. Finché lo desidera potrà rimanere con noi, fino alla sua autonomia. Il percorso è semplice da pensare, ma lungo da realizzare, un passo alla volta: imparare l’italiano, proseguire gli studi e poi il lavoro. Al termine del primo incontro con la mediatrice culturale ci hanno detto: «Quando saremo maggiorenni non ci abbandonerete, vero?». Lavoro da anni con stranieri e quello che è scontato per noi per loro non lo è mai. Il principale nemico è la burocrazia.

Come hai conosciuto la realtà della Papa Giovanni XXIII?

Terminata l’università mi chiedevo come conciliare la mia vocazione cristiana con il lavoro e la famiglia. L’Apg23 mi è sembrata la risposta per fare quadrare il cerchio fra i miei ideali di giustizia sociale e condivisione con gli ultimi e la scelta di sposarmi e avere una famiglia. Nell’incontro con persone migranti ho trovato la dimensione in cui mi sentivo più a “casa”. La gioia di condividere la stessa tavola a cena, in cui ognuno si sente a casa, fa sentire che fatiche e difficoltà di ogni giorno non sono vane e mi rende felice.

Samuele Marchi