Dopo il passaggio alla Camera, attualmente il Ddl Zan è all’esame presso la Commissione Giustizia del Senato dove si stanno svolgendo le audizioni richieste dalle diverse forze politiche. Per approfondire i contenuti del disegno di legge, abbiamo intervistato l’avvocato Paolo Bontempi.
Intervista all’avvocato Paolo Bontempi
Avvocato, quali sono gli aspetti positivi e quali invece quelli critici del Ddl Zan?
Con l’introduzione di norme volte a prevenire atti di discriminazione o di violenza motivati dalla diversità, il legislatore mira a dare attuazione a un principio fondamentale della Costituzione espresso dall’art. 3: ogni uomo ha pari dignità sociale e giuridica, senza distinzioni per ragioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche o condizioni personali o sociali.
Sotto questo profilo il Ddl Zan enuncia un fine meritevole, che corrispondente a una norma di diritto naturale. Tuttavia, quando lo strumento utilizzato è la norma penale, allora occorre particolare cautela. Anzitutto è necessario chiedersi se esista una giustificazione adeguata, derivante da una situazione di emergenza sociale da tutelare con riferimento alla categoria che si reputa bisognosa di particolare protezione (pena la violazione dello stesso principio di uguaglianza) e occorre che i fatti che si intendono criminalizzare siano chiaramente determinati, specificati e verificabili (pena la violazione del principio di legalità espresso dall’art. 25 della Costituzione). Sul piano della rigorosa verifica dei presupposti e della tecnica normativa il Ddl Zan lascia spazio a notevoli perplessità.
Intende dire che non ci sarebbe bisogno di una legge penale sulla omofobia?
Vede, l’impianto normativo sul quale si innestano le norme del Ddl Zan è quello introdotto dalle leggi “Mancino-Reale” (Legge 654/1975 e D.L. 122/1993 convertito con legge 205/1993, da ultimo modificati dal D.Lgs. 21/2018). Si tratta di un impianto introdotto per perseguire penalmente attività di propaganda e di incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La diffusività del pericolo di lesione degli interessi tutelati dal Ddl Zan non è equiparabile all’esperienza che ha giustificato la legge Mancino.
Che vi sia la necessità di rispondere con uno strumento repressivo penale rafforzato alla “escalation dei crimini d’odio legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere, azioni di violenza inaudita” (per usare le parole di una delle relazioni introduttive al Ddl) è affermazione che non trova riscontro nell’esperienza concreta e neppure in rilevazioni ufficiali (ad esempio quelle del Ministero dell’Interno che, ormai dal 2010, ha istituito l’Oscad – Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori). Questo non significa negare la giusta repressione penale alla lesione degli interessi oggetto del Ddl, dato che esistono già norme penali che puniscono atti di discriminazione e violenza.
Significa interrogarsi sulla necessità di una tutela penale rafforzata, con pene aggravate, per una categoria di persone che è meritevole di considerazione tanto quanto altre categorie potenzialmente esposte a discriminazioni o violenze.
E sul fronte della tecnica normativa?
Distinguerei due gruppi di norme all’interno del ddl Zan: un primo gruppo (artt. 1-6) dedicato alla descrizione dei reati e al trattamento sanzionatorio; un secondo gruppo (artt. 7-10) di carattere programmatico su attività tese a contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere. Le norme incriminatrici introducono reati di discriminazione o violenza per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere o sulla disabilità”. La concreta rilevanza penale dei fatti di discriminazione o violenza dipende dalle definizioni, contenute nell’art. 1 del Ddl. Si descrivono concetti, quali “genere” e “identità di genere”, che sono vaghi e soggettivi, in quanto la tutela è riferita non a una condizione oggettiva, ma a come la persona si percepisce, indipendentemente dal proprio sesso biologico (non solo maschio o femmina, ma anche uno dei tanti generi alternativi che si ritengono esistenti), a come manifesta all’esterno il suo modo di sentirsi rispetto alle “aspettative sociali connesse al sesso”. L’evanescenza dei concetti è aggravata dal fatto che questa condizione soggettiva può essere mutevole nel tempo, potendo ogni persona variare a piacimento, nel corso della propria vita, l’appartenenza di genere. Anche la nozione di “orientamento sessuale” finisce col risultare incerta perché, oltre a non collegarsi ad elementi di stabilità temporale, considera equivalente l’attrazione sessuale alla semplice attrazione affettiva, di difficilissima definizione oggettiva. È evidente allora che punire chi pone in essere atti di discriminazione o violenza per motivi legati a situazioni soggettive vaghe e mutevoli finisce col rendere incerta anche l’identificazione della condotta criminale, lasciata alla percezione della presunta vittima e alla discrezionalità del giudice.
Accennava anche all’esistenza di una parte programmatica del disegno di legge?
Si prevedono attività celebrative e formative, anche nelle scuole, per promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione. L’educazione al rispetto e contro ogni forma di discriminazione è un fine ammirevole. Quello che preoccupa è che, una volta introdotta una tutela penale a favore di nozioni quali quella di “genere” e di “identità di genere”, si finisce con lo sdoganare una concezione della natura umana come un qualche cosa di relativo, lasciato alla libera autodeterminazione dell’individuo, anche mutevole nel tempo, una concezione secondo cui qualsiasi natura la persona decida di attribuirsi, a prescindere dal dato biologico, anatomico o anagrafico, è equivalente a un’altra e costituisce “pregiudizio” ritenere che esista una condizione più naturale di un’altra. Questa concezione ritengo sia devastante, soprattutto se introdotta nell’età della pubertà o adolescenza in cui si va formando la personalità, perché crea una confusione enorme, inducendo la convinzione che anche l’orientamento sessuale sia una questione di scelte, scollegabile dal dato biologico.
Se approvato così com’è, il Ddl Zan potrebbe aprire la strada a interpretazioni liberticide?
È lo stesso promotore del Ddl a essersene accorto, avendo introdotto l’art. 4 che suona più come una norma che pone limiti alla libertà di opinione. Da un lato si ribadisce la libera espressione di convincimenti e opinioni, purché “riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, espressione criptica che pone dubbi sull’effettiva salvaguardia della libertà di critica o sulla possibilità di affermare l’esistenza di verità oggettive e immutabili, quali quella che il matrimonio può essere solo tra un uomo e una donna. Dall’altro – e questo è grave – si precisa che la libertà di opinione non deve determinare il “concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”, il che significa che se ad esempio un sacerdote legge sul pulpito che il Catechismo della Chiesa cattolica considera un peccato grave l’omosessualità, egli dovrà assumersi il rischio che altri promuovano iniziative discriminatorie a danno di persone omosessuali, magari citando gli stessi riferimenti (con buona pace non solo della libertà di espressione e di religione, ma anche del principio secondo cui la responsabilità penale è personale).
a cura di Samuele Marchi