All’inizio degli anni Ottanta fece la comparsa nel territorio marradese il suide selvatico: il cinghiale. L’abbandono del territorio montano avvenuto con lo spopolamento dei poderi, prima delle terre alte e poi a scendere fino ai poderi di fondo valle, aveva lasciato spazio “libero” dalla presenza dell’uomo, dai piccoli animali da cortile e dagli ovini bovini ed equini e, di conseguenza, aveva reso una buona parte del territorio disponibile a un nuovo popolamento selvatico. L’incolto trasformatosi lentamente in bosco (un ritorno ai tempi atavici) con un passaggio intermedio a fitti arbusteti e prunaie (ottimi rifugi) e, soprattutto, un’abbondante offerta senza più competizione alimentare, avevano reso possibile, appunto, l’insediamento di nuove specie selvatiche, che per lo più riprendevano possesso del territorio com’era all’inizio del millennio scorso; territorio trasformato poi dall’uomo e con la massima espansione umana nel periodo fra le due guerre mondiali.

La prima specie a comparire è stato il capriolo, grazie anche all’intervento dell’uomo che lo aveva favorito con un lancio iniziale. (Si dice che il Corpo Forestale avesse lanciato verso la fine degli anni sessanta quattro maschi e sette femmine). A fine anni Settanta si hanno sporadiche notizie di avvistamenti di cinghiali nelle zone più alte e meno frequentate. È negli anni Ottanta che il re della macchia entra prepotentemente all’attenzione dei concittadini e soprattutto dei cacciatori locali.

Si costituisce nel 1982 la prima squadra di caccia al cinghiale, alla quale ne seguono altre quattro: indubbio segnale del notevole incremento del suide sul territorio.

Dal popolamento iniziale sulle parti alte a cavallo dell’appennino, l’animale cominciò a scendere verso zone più antropizzate provocando danni ai castagneti e alle poche colture del fondo valle: tutti si resero conto del problema.

I cinghiali erano localizzati e non ancora distribuiti sul territorio nazionale. Si iniziò quindi a osservare, studiare e conoscere la nuova specie del suide, che non corrispondeva più alla vecchia specie maremmana meglio conosciuta come italica (Sus scrofa meridionalis). In particolare le differenze, che in seguito avrebbero dato luogo alla situazione attuale, si individuarono sulla taglia, sulla selvaticità e sulla riproduzione.

Il cinghiale italico non superava i 60/70 kg, rimaneva nel fitto del bosco (non attraversava le strade) e, sopratutto, faceva cucciolate di 4/6 individui che non portava totalmente a compimento.

L’attuale (incrociato negli anni quaranta con individui dell’est Europa per rinvigorire la specie) raggiunge i 120/135 kg, in molti casi è diventato “cittadino”, ed è molto prolifico.

Recenti studi stimano un tasso di accrescimento della popolazione compresa tra il 240 e il 360% all’anno

Gli studi danno un tasso di accrescimento della popolazione che va dal 240 fino al 360% annuale.

Da ciò si può ricavare la situazione di oggi, che ha portato il cinghiale a una trasmigrazione, ben oltre i confini soliti e abituali, alla ricerca di nuovi siti e sopratutto di migliori e abbondanti foraggiamenti con danni alle colture non solo per la predazione, ma anche per il calpestio, visto che si sposta in branchi numerosi e a volte composti anche da più di trenta soggetti.

Lo spostamento, che ha seguito le direzioni indicate dall’abbondanza trovata nel reperimento del cibo, ha portato a una diminuzione di soggetti nel nostro territorio e, conseguentemente, a un abbassamento dell’habitat verso la pianura romagnola da una parte e del Mugello dall’altra, con le conseguenze che oggi abbiamo ben evidenti sulle colture agricole.

Fiorenzo Samorì