Ricordare è interpretare il passato. Con “La valigia di cuoio” (Brescia, Liberedizione) Ileana Montini ripercorre la propria vita: dalle atmosfere familiari alla professione giornalistica, all’impegno politico, alla nativa Romagna, in un viaggio tra ’900 e 21esimo secolo.

L’intervista a Ileana Montini

Connettere relazioni è una delle motivazioni che ti hanno spinto a scrivere questo libro. Da cosa nasce questa urgenza?

Mettersi in relazione è sempre un connettere due o più menti e, di conseguenza emozioni, sentimenti, le storie. Il libro inizia con due cognomi, quello della mia mamma e quello del mio babbo. I Pasini sono di origine faentina, i Montini invece originariamente di Galeata. È a Cervia che i due cognomi si incontreranno. Connettere relazioni è un’operazione per capire se stessi attraverso accadimenti diversi. Nel libro c’è una varietà di narrazioni che è specchio di una vita: ho superato gli ottanta.

Qual è il filo conduttore che lega i vari racconti del libro?

Il viaggio. Sono nata in Istria, poco prima dell’entrata in guerra e ho subito cominciato a viaggiare. Il mio babbo era della Regia Guardia di Finanza. Da bambina viaggiavo in treno con una valigetta di cuoio (quella in quarta di copertina). Così è un po’ l’immagine simbolo del mio viaggiare tra regioni e nel tempo. Ma sono vissuta sempre in viaggio anche perché sono andata a insegnare in Veneto, poi ritornata in Romagna e quindi in Lombardia. Racconto il viaggiare in altri Paesi secondo modalità non da viaggiatrice consumista: sostengo, con la descrizione dei viaggi, che bisogna diventare “viaggiatori posati”, attenti alla storia, ai costumi, ma non con l’atteggiamento estetizzante. Occorre essere critici per scoprire le complessità dei mondi altri.

Come è cambiata la Romagna in questo viaggio?

La Romagna del ‘900 che io ricordo da bambina e ragazza era ancora anticlericale, ma anche segnata dal culto del rapporto leale tra avversari. C’è un racconto nel libro che spiega questo tipo di relazioni: il comunista e partigiano cervese Fusconi era amico di mio zio dirigente fascista. C’è un episodio non conosciuto di un aiuto reciproco di grande qualità umana.

Tra le persone che racconti nel libro, ce n’è una che spicca per la particolarità della sua vita?

Ci sono tre donne che sono state maestre di vita: la partigiana cattolica ravennate Francesca Borghi, Rossana Rossanda e Lidia Menapace.

E invece tra i luoghi?

Il viaggio in Iran, dove ho sperimentato l’abbigliamento imposto alle donne. Da anni mi interesso e scrivo del rapporto donne e Islam e del monachesimo cristiano femminile. Nel libro c’è anche una riflessione sulla connessione tra il viaggiare e la dimensione mistica, che è anche invito al rispetto della natura, come si legge negli statuti camaldolesi del 1200. Ci sarebbero ancora altri viaggi da raccontare come “viaggiatori posati”.

Samuele Marchi