Una studentessa di Lugo ha trasformato il suo disagio in un appello coraggioso, che ha attraversato i corridoi della scuola e raggiunto le piazze virtuali del Web. Le sue parole, condivise anche dallo scrittore e insegnante Enrico Galiano, pongono interrogativi urgenti sulla relazione educativa tra docenti e alunni.
La lettera affissa a scuola diventa virale sui social
Ha firmato con il proprio nome, Anna, e ha scelto le bacheche del liceo scientifico Ricci Curbastro per affiggere una lunga riflessione indirizzata ai suoi professori. Una lettera toccante, densa di consapevolezza, che denuncia il malessere vissuto tra i banchi, ma anche il bisogno urgente di sentirsi visti e ascoltati. In poche ore, le parole della studentessa sono rimbalzate sui social, diventando virali grazie alla condivisione del docente e scrittore Enrico Galiano, seguito da migliaia di studenti e insegnanti in tutta Italia.
«Dentro questa lettera c’è tutto il dolore sommerso di chi ogni giorno entra in classe con la voglia di capire, di crescere, di trovare un senso — e ne esce con un altro carico di frustrazione», ha commentato Galiano sul suo profilo Instagram.
Una lettera che interpella la scuola
Il testo firmato da Anna ha colpito per la sua schiettezza. Più che una critica, è una domanda aperta. Una richiesta di attenzione e umanità. In essa, la ragazza racconta la perdita progressiva di senso e motivazione verso lo studio, la percezione di essere invisibile, la mancanza di relazioni autentiche con i docenti.
L’eco che ha avuto in rete dimostra quanto le sue parole risuonino anche nell’esperienza di molti altri studenti. La scuola, sostiene Anna, rischia di ridursi a un automatismo privo di passione, dove i voti prevalgono sull’ascolto e sul riconoscimento.
Le citazioni che utilizza – da Plutarco alla cultura giapponese dell’ikigai – impreziosiscono una riflessione che è tutt’altro che improvvisata: è un appello maturo e consapevole a rimettere al centro della scuola la relazione educativa.
La risposta del dirigente scolastico Giancarlo Frassineti
Non si è fatta attendere la risposta del dirigente scolastico Giancarlo Frassineti, che ha voluto raccogliere pubblicamente l’appello della studentessa, cogliendone la forza espressiva e il significato più profondo.
«La lettera scritta da una nostra studentessa costituisce un’evidente manifestazione di quel disagio giovanile che rappresenta la questione centrale della sfida educativa del nostro tempo, per la Scuola e la comunità tutta – ha affermato Frassineti –. Il liceo Ricci Curbastro è da sempre impegnato nel contrastarlo, con progettualità specifiche rivolte agli studenti, esperti, sportelli d’ascolto, attività per le famiglie e il dialogo continuo tra dirigenza e studenti».
Il preside ha inoltre confermato che, non appena ricevuta la lettera, sono stati avviati approfondimenti con la studentessa, i rappresentanti di classe, i docenti e la famiglia. «Un’iniziativa intrapresa nel pieno rispetto dei ruoli e delle competenze, con l’obiettivo di offrire una risposta fondata sul dialogo, sul rispetto reciproco e sulla condivisione, escludendo ogni forma di sanzione, del tutto inadeguata in questo caso».
Il testo integrale della lettera
«Cari professori,
è quasi un peccato essere arrivati così in basso da trovar necessario scrivere una lettera, ma non vi vedo soluzione. Secondo la cultura giapponese ogni persona dovrebbe possedere un ikigai, cioè uno scopo nella vita, quel qualcosa che ti fa svegliare la mattina. Bene, io l’avevo trovato nello studiare, lo facevo con passione, quasi devozione. Mi svegliavo la mattina consapevole che andare a scuola, imparare, studiare fosse il mio scopo. Poi ho iniziato a comprendere, ogni giorno di più, che non ha alcuna utilità: di utile, non mi viene spiegato nulla in modo appassionante, non vengo mai ricompensata per il duro lavoro.
Quando arrivo a casa e devo aprire il libro per studiare mi viene da piangere, sento la mia mente chiudersi, bloccarsi. Quando sono in classe sento solo morte, mi guardo attorno e vedo i miei compagni con gli occhi spenti o addormentati, guardo verso di voi e vedo il nulla, solo una specie di automa che sputa parole su fatti decaduti i cui valori nascosti sono stati sepolti con le loro vittime. Continuate a ripetermi che i voti non contano, che non sono ciò che fanno una persona.
Per fortuna è vero, ma giudicate ore e ore di studio, ore in cui sono stata attenta in classe, pensieri e pensieri attivati solo per essere giudicati mediocremente, e chissà poi perché, dal momento che non mi viene mai spiegata una sola volta quali siano i problemi. Quando sono in bus per arrivare a scuola, mi chiedo perché mai stia venendo, perché mai ho anche avuto la cura di mettere i libri giusti nello zaino e di fare i compiti, quando so benissimo che intanto nulla verrà ricompensato.
Mi domando perché la mattina mi sono alzata per andare in un luogo dove nessuno mi vede, dove nulla mi interessa, dove si è solo di fretta e in ansia per finire un programma che nessuno sa davvero perché segue, dove mi giudicate per quindici minuti e mettete sul registro un voto immotivato su qualcosa che mi avete spiegato in modo freddo, distante e morto. Pretendete un albero altissimo, meraviglioso, possente, ma non vi curate un minimo di innaffiarlo, di fertilizzarlo, di assisterlo con un bastoncino quando il fusto è troppo fragile.
Che non vi venga in mente di dire che sto solo polemizzando perché intanto ogni volta che chiedete come sto, volete sapere solo che sto bene anche se tutto va male. Non volete sapere che sto soffrendo, che vengo a scuola solo per ottenere il diploma, che non mi viene spiegato nulla di nuovo.
Non volete sapere che ognuno degli alunni delle vostre classi si sente solo, disperso, in ansia, che alcuni preferirebbero morire. Esigete la sapienza, le capacità, la maturità di persone molto più mature di noi, quando siamo solo diciassettenni che non sanno nulla sul mondo.
Sappiamo solo che siamo oppressi, annoiati, devastati, terrorizzati dalle vostre verifiche, dalle vostre interrogazioni, dalle vostre parole. Ho delle domande per tutti voi, siate sinceri almeno con voi stessi, perché insegnate? Quando ci guardate cosa vedete? Credete che essere insegnanti sia un lavoro sociale?
NB: un mio pensiero».
La scuola come spazio di relazione
Il monito finale di Anna non è uno sfogo, ma un invito alla riflessione. La scuola, per essere davvero educativa, ha bisogno di relazione, empatia, fiducia. Come scriveva Plutarco ne L’educazione dei figli: «I giovani non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere».