Un Cristo crocifisso che non trasuda sangue e senza la croce lignea, oppure una deposizione dove mancano i segni dei chiodi. Corpi solo in parte sofferenti perché già trasfigurati, volti in bilico tra dolore ed estasi, sono l’essenza delle opere di Pietro Lenzini, artista poliedrico, nato a Bondeno, ma faentino d’adozione, esposte fino all’8 giugno al Museo diocesano di Faenza. Pittore, scenografo, incisore e disegnatore, Lenzini si dedica da anni alla ricerca artistica sul tema del sacro, in particolare sulla figura del Crocifisso. La mostra Epifanie di speranza, curata da Giovanni Gardini, direttore del Museo, si inserisce nell’ambito delle iniziative per il Giubileo della Speranza, ponendo l’accento non solo sulla passione e la morte di Cristo, ma soprattutto sulla luce della Resurrezione.
Intervista a Pietro Lenzini
Maestro Lenzini come può un Cristo crocefisso anticipare la speranza?
Nella mia ricerca, il tema della crocifissione è centrale, ma non come rappresentazione della sofferenza fine a sé stessa. Piuttosto, è un passaggio verso la Resurrezione. Non a caso, nei miei Crocefissi non c’è mai solo dolore, ma una tensione verso la luce. Non è la fine nemmeno del corpo perché anche quello è destinato alla resurrezione. È un tema che sento profondamente e che cerco di tradurre nel linguaggio pittorico.
Nella mostra sono esposti soprattutto dei Crocefissi. Cosa raccontano?
L’umanità di Cristo. Nei miei lavori la figura di Cristo non è mai rigida o stilizzata, ma profondamente umana. Il corpo è raccontato nella sua fisicità, ma non resta solo materia: c’è sempre una tensione verso la trasformazione. L’arte ha il compito di evocare la spiritualità attraverso la concretezza del segno, del colore, della forma.
Cosa significa dipingere arte sacra?
È una responsabilità, prima di tutto. Bisogna sentire questi temi, perché non è come dipingere un paesaggio o una natura morta. Nell’arte sacra ogni dettaglio ha un significato profondo e deve parlare a chi guarda. Non è solo un fatto estetico, ma un messaggio spirituale. Ho avuto la fortuna di realizzare diverse opere per chiese e istituzioni religiose, e ogni volta è stato un dialogo tra la mia sensibilità artistica e la necessità di trasmettere il sacro.
Da quando dipinge Crocefissi?
Dagli inizi degli anni ’90. Feci una grande pala d’altare nella chiesa di Sant’Ippolito, che adesso è chiusa. Una chiesa bellissima, settecentesca, dove dopo l’ultima guerra era andata perduta la pala d’altare. Il parroco dell’epoca e alcuni devoti mi commissionarono l’opera, il quadro più grande che ho realizzato nella mia vita, dedicato a San Romualdo, perché era una chiesa camaldolese.
Quello è stato solo l’inizio.
Sì, poi ho proseguito con le pale d’altare per le chiese del Paradiso e dei Santi Ippolito e Lorenzo a Faenza e due grandi tele per la Collegiata di Cento. Ma ricordo con particolare affetto le due grandi tele dedicate alla conversione e al battesimo di Sant’Agostino, realizzate per la chiesa omonima. Sono opere monumentali, che forse verranno esposte in un museo prima di essere collocate in chiesa.
I dipinti esposti al Museo diocesano in che anni sono stati realizzati?
A parte il quadro che ho donato al museo in occasione del Giubileo del duemila, gli altri sono stati realizzati negli ultimi cinque o sei anni. Il più recente è del 2024.
Nei suoi dipinti spesso emergono la sofferenza e la morte. Lei ha paura di morire?
Beh, non è che piaccia a nessuno l’idea di morire, però, come cattolico sono ottimista e nutro speranza.
Il tema della morte però l’affascina come artista.
Ho sempre cercato di affrontare questi argomenti con realismo, ma senza disperazione. Anche quando ho lavorato su soggetti legati alla decomposizione, alle mummie, alla caducità della vita, non l’ho mai fatto con un senso di nichilismo. La mia arte è una ricerca di senso, e per me il senso ultimo è la speranza. Come dice san Paolo, «Tutti saremo trasformati in un batter d’occhio». Non siamo destinati a scomparire nel nulla, ma a una nuova esistenza.
Il suo Crocefisso è già proiettato verso la Resurrezione?
Esattamente. La Croce è il punto di passaggio, non l’ultima parola. Cristo è il pellegrino della Speranza, e nella sua Croce è già contenuta la luce della Pasqua. Anche oggi abbiamo bisogno di questa prospettiva: non fermarci al dolore, ma vedere già la trasformazione, la Resurrezione. È un messaggio che vale per tutti, credenti e non.
Qual è il compito dell’arte sacra oggi, secondo lei?
Penso che l’arte sacra abbia ancora un ruolo essenziale: parlare alle persone di cose profonde, spirituali, senza per forza usare le parole. L’arte è un linguaggio universale, che tocca corde intime. Per questo credo che il compito dell’artista sia quello di costruire ponti tra la terra e il cielo, tra l’uomo e il divino. Il mio desiderio è che chi guarda i miei lavori possa sentire un’eco di questa ricerca ed esserne ispirato.
Cosa significa esporre in un anno giubilare?
È un’occasione straordinaria. Il Giubileo non è solo un evento liturgico, ma un tempo in cui siamo tutti chiamati a guardare oltre. Spero che chi visiterà la mostra possa sentire che la Croce non è la fine, ma un nuovo inizio.
Barbara Fichera
La mostra sarà aperta al pubblico fino all’8 giugno, con ingresso libero. Orari di visita: venerdì, 16-18.30. Sabato e domenica: 10-12.30 / 16-18.30