La parità di genere in Italia resta un’utopia. A dirlo sono i numeri: le donne guadagnano in media tra il 20 e il 30 per cento in meno rispetto agli uomini, con una forbice che si allarga con l’aumentare dell’età. Spesso più istruite dei colleghi maschi, le donne si devono dividere tra casa e lavoro, con stipendi inferiori e, invecchiando, sono pure destinate a diventare più povere. Una voragine che, secondo l’ultimo Gender Gap Report del Wef, il Forum economico mondiale, potrebbe appianarsi tra circa cinque generazioni.

Stipendi inferiori del 30% a parità di ruolo ricoperto

Le cose non vanno meglio in provincia di Ravenna, dove, secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Inps, il gender pay gap è maggiore rispetto alle medie regionale e nazionale. A denunciare questo quadro è Sara Errani, della segreteria confederale della Cgil di Ravenna, che analizza nel dettaglio il fenomeno. Anche a Ravenna, la differenza salariale è marcata e colpisce ogni fascia d’età e settore lavorativo.
Non solo: le donne hanno anche meno scelta. «Il range di occupazioni è limitato rispetto ai colleghi uomini – sottolinea Sara Errani – spesso in attività a carattere impiegatizio con livelli retributivi più bassi a parità di ruolo ricoperto». Il paradosso è che la disparità di trattamento non si limita al settore privato. Anche nel pubblico, dove la presenza femminile è più alta e le tutele in teoria maggiori, il divario resta forte. «Il fenomeno della “segregazione occupazionale” delle donne, che emerge dall’analisi dei dati, investe anche il settore pubblico – rileva Errani – con un differenziale salariale di genere rilevante e costante nel tempo». I dati presi in esame dalla sindacalista fanno riferimento agli anni 2022-2023 e sono impressionanti. Se a livello nazionale le donne guadagnano in media il 28 per cento in meno, il dato provinciale supera addirittura il 30 per cento. «Per quanto riguarda il settore privato extra-agricolo – precisa Errani –, la disparità retributiva è netta. I valori medi del settore privato per il 2022 sono rispettivamente 75,1 euro contro i 106,2 euro giornalieri guadagnati dai colleghi maschi. Sono più bassi rispetto alle medie regionale e nazionale». Le cose vanno leggermente meglio – si fa per dire – per il comparto pubblico. «Qui la media giornaliera è di 105,9 euro per le donne, rispetto a 136,5 euro dell’occupazione maschile».

Le pensioni delle donne sono quasi la metà degli uomini

La voragine aumenta se si parla di pensioni. «Nel 2023 l’importo medio mensile delle pensioni femminili è stato di 1.397,9 euro (contro una media regionale di 1.437,3 euro) rispetto ai 2.133,9 percepiti dagli uomini» precisa Errani, che aggiunge: «differenze significative emergono anche negli importi delle pensioni di vecchiaia e invalidità». Secondo Errani il gender gap è legato ad almeno tre fattori. «Retribuzione oraria, tempi di lavoro e anzianità contributiva. Anche l’evoluzione delle norme di accesso alle pensioni ha inciso sui differenziali di genere – precisa-, determinando una disomogenea distribuzione delle pensioni liquidate».

Fare carriera è più difficile


Per le donne è molto più difficile fare carriera e raggiungere posizioni ai vertici delle aziende a causa di rapporti part-time o contratti a tempo determinato, spesso imposti dal datore di lavoro. A penalizzare le donne, manco a dirlo, è la maternità. Prendendo in esame il 2023 il divario di contratti di lavoro è sconvolgente. «Il numero dei contratti a tempo indeterminato sono stati 3.489 per le donne rispetto ai 6.014 dei lavoratori maschi» sottolinea Errani. Riguardo alle misure a sostegno della genitorialità e delle famiglie «l’introduzione dell’Assegno unico universale è stata una scelta importante – sottolinea Errani – ma la copertura andrebbe estesa ai minori e alle famiglie ora escluse, come i lavoratori i cui figli non risiedono in Italia, e per eliminare le penalizzazioni che hanno colpito soprattutto le lavoratrici dipendenti». Che fare allora? «Servono misure forti – aggiunge Errani –, come congedi paritari e ben remunerati, servizi di cura e educativi per l’infanzia universali e gratuiti, e politiche che garantiscano stabilità lavorativa e qualità».

Barbara Fichera

(Foto Agensir)