“Ma non ti vergogni? Sei una scimmia”. È questo quello che ha urlato una madre, rivolta a una giocatrice 17enne vittima di insulti razzisti durante una partita di basket femminile Under 19 tra Happy Basket Rimini e Nuova Virtus Cesena. L’atleta, scossa dagli insulti razzisti, ha lasciato il campo per affrontare la donna sugli spalti, come documentato da un video diventato poi virale sui social. Immediata la condanna del gesto da parte di entrambe le società, mentre per la madre è scattato il Daspo, ovvero il divieto di assistere ad eventi sportivi, per due anni. Ad allarmare è però il fatto che non si tratta di un episodio isolato. Si moltiplicano le segnalazioni di aggressioni ad arbitri, episodi di violenza e insulti a sfondo razziale nel mondo dello sport giovanile, che hanno come protagonisti i genitori degli atleti.

Intervista a Matteo Pio, allenatore Under 19 Raggisolaris Academy e vice di Luigi Garelli in prima squadra.

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Per approfondire questi temi abbiamo incontrato Matteo Pio, allenatore della squadra Under 19 della Raggisolaris Academy e vice di Luigi Garelli in prima squadra. «Si tratta di un gesto assolutamente da condannare – commenta Pio -. Il razzismo nel mondo del basket non può esistere anche perché gli idoli dei ragazzi che alleno sono tutti cestisti di colore, quindi si comprende bene l’assurdità di questo fenomeno. Però, se ci troviamo a parlarne vuol dire che purtroppo il problema è ancora presente». I Raggisolaris come società si sono dotati, proprio per combattere abusi, violenze e discriminazioni di ogni genere, di un codice etico che prevede una politica di tolleranza zero verso determinati comportamenti. «All’interno della società ci sono tanti ragazzi di nazionalità diverse e la coesistenza tra loro è ormai qualcosa di consolidato. Il razzismo va combattuto lavorando ogni giorno con i ragazzi e le loro famiglie».

Il rapporto con le famiglie

Sempre più spesso succede che i genitori si sostituiscano ai propri figli e si rendano protagonisti di gesti discriminatori o violenti.
«Non si può generalizzare demonizzando tutti i genitori, però bisogna sempre ricordarsi – spiega Pio – che il protagonista è il ragazzo che scende in campo e chi è sugli spalti, genitori compresi, deve essere di supporto, senza interferire negativamente». È importante che «la palestra sia un ambiente positivo, in cui i ragazzi possano crescere, anche attraverso gli errori tecnici e le sconfitte, in totale serenità – aggiunge Pio -. Si deve creare una sinergia tra allenatore e genitori che insieme collaborano per costruire un ambiente dove trovano spazio competizione e agonismo ma anche crescita personale e rispetto. Molto spesso i ragazzi vogliono solo divertirsi, giocando a basket, oppure vogliono inseguire un sogno e non dobbiamo essere noi adulti a condizionarli, con i nostri comportamenti e punti di vista. È necessario creare un ambiente sano, dove tutti collaborano per permettere ai ragazzi di crescere, senza complicazioni e in cui si può perdere senza rinunciare ai propri principi e valori. Questo è un approccio che riduce sicuramente il rischio che accadano episodi incresciosi, come quello di Rimini». Perché i ragazzi, secondo Pio, al di là delle apparenze e delle mode non sono cambiati, nonostante sia mutato profondamente il contesto in cui vivono. «È vero, con l’avvento dei social è cambiato il loro modo di comunicare e dobbiamo essere bravi noi allenatori ad adattarci a questo cambiamento però sogni, aspettative ed emozioni, che i ragazzi provano giocando a basket, sono rimaste inalterate». In questo contesto «l‘allenatore – conclude Pio – deve essere di esempio. I ragazzi sono intelligenti e capiscono se l’allenatore si comporta sulla base di ciò che trasmette a parole. Non bisogna essere superiori o esterni al gruppo squadra, ma essere consapevoli di avere una responsabilità e trasmettere valori e principi, per aiutarli a crescere».

Samuele Bondi