Solo nella notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre si è conclusa la Cop29, con qualche giorno di ritardo e dopo due settimane di trattative, che sembravano sul punto di fallire.

Alla fine, l’accordo è stato raggiunto: gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo contro il cambiamento climatico passano dagli attuali 100 miliardi all’anno fino a 300 miliardi all’anno nel 2035, con l’obiettivo di aiutare le nazioni povere a far fronte alle devastazioni del riscaldamento globale.


300 miliardi di dollari saranno destinati ai Paesi in via di sviluppo che hanno bisogno di denaro per liberarsi dal carbone, dal petrolio e dal gas che causano il surriscaldamento del pianeta, per adattarsi al riscaldamento futuro e per pagare i danni causati dalle condizioni climatiche estreme.

La cifra non si avvicina all’importo totale di 1.300 miliardi di dollari che i Paesi in via di sviluppo chiedevano, ma è tre volte superiore all’accordo da 100 miliardi di dollari all’anno del 2009 che sta per scadere.

Inoltre, ogni menzione esplicita della “transizione” verso l’uscita dai combustibili fossili, il principale risultato della Cop28 di Dubai, è scomparsa nella definizione dei testi principali. Appare solo implicitamente nei richiami dell’accordo adottato l’anno scorso.


Ne parliamo con Giuseppe Milano, segretario generale di Greenaccord onlus.

L’intervista a Giuseppe Milano (Greenaccord onlus)

Si va verso la direzione giusta, come hanno detto alcune delegazioni, o è un risultato comunque molto poco soddisfacente, come hanno detto tanti altri?


Se analizzassimo il dato in modo meramente quantitativo è indubbio che quello uscito da Baku è un progresso rispetto alla precedente dotazione, ma con un approccio tanto pragmatico quanto olistico, l’analisi va fatta anche qualitativamente.

In tal senso, dunque, emerge una doppia preoccupazione. La prima: i 100 miliardi all’anno, comunque definiti senza un’ampia condivisione tecno-scientifica e politica nelle precedenti edizioni delle Conferenze sul Clima, sono stati più annunciati che erogati, con i Paesi più poveri e vulnerabili che hanno dovuto fronteggiare, pertanto, eventi estremi sempre più catastrofici con risorse insufficienti per la mitigazione e l’adattamento.

La seconda: a fronte di un potenziale fabbisogno cresciuto fino alla straordinaria misura di 1.300 miliardi di dollari all’anno da investire sia per la mitigazione e l’adattamento sia per la gestione delle “perdite” e dei “danni” ( “Loss and Damage”), la scelta di destinare appena 300 miliardi di dollari ai Paesi più fragili come quelli in via di sviluppo – che sono i più colpiti dai fenomeni estremi, ma anche i meno responsabili dei cambiamenti climatici – lascia sgomenti perché, mentre il pianeta corre verso l’aumento irreversibile della temperatura media globale oltre l’1,5°C, testimonia da un lato la crisi del multilateralismo solidale e dall’altro l’egemonia culturale delle lobby dei combustibili fossili che sabotano gli equilibri democratici.

Attraverso il coinvolgimento di soggetti come le Banche multilaterali per lo sviluppo e del settore privato, i flussi di finanziamento annui a favore dei Paesi poveri dovrebbero arrivare a 1.300 miliardi di dollari, sempre entro il 2035.Ma questa modalità che non peserà ancora di più sui Paesi già indebitati?


Sì, esatto. La vera soluzione sarebbe nella cancellazione del debito, come vorrebbe da tempo pure Papa Francesco, o nella prevalenza della finanza pubblica per essere sicuri che la decarbonizzazione sia equa e giusta.

Se al debito, in un perverso gioco semantico, gli cambiamo soltanto il nome, il problema non lo risolviamo: lo aggraviamo e avviciniamo la resa dei conti. I Paesi del Sud del mondo, non sempre compatti nelle loro richieste e rivendicazioni, devono essere accompagnati e non ancora sfruttati perché anche per loro la conversione ecologica e la transizione energetica sia un’opportunità di cambiamento e di progresso.

Oggi assistiamo impotenti e indifferenti, invece, all’immorale land grabbing e all’inaccettabile accaparramento delle risorse naturali che pregiudica il diritto delle popolazioni africane (ma non solo) a non trasformarsi in migranti climatici e in vittime sacrificali di un modello finanziario disumano. I cambiamenti climatici non possono essere pagati da chi non li esaspera e non essere pagati da chi li innesca.

La Cina diventa un nuovo contributore ai finanziamenti per il clima, ma su base volontaria: non è troppo poco per un Paese ricco, potente e inquinante?


Per i paradossi di una eco-diplomazia ancora immatura, la Cina risulta ancora tra i Paesi in via di sviluppo, pur essendo da tempo al tavolo del G20 e tra i Paesi più influenti nello scenario geopolitico internazionale. Con l’avvento di Trump, poi, non è escluso che il prestigio aumenti e che la Cina assuma un ruolo strategico di guida o di attore chiave nei processi negoziali o commerciali.

La Cina, infatti, negli ultimi anni, pur essendo tra i principali responsabili delle emissioni climalteranti (con gli Stati Uniti), ha investito decine di miliardi di dollari nelle energie rinnovabili – con soluzioni offshore e galleggianti da record, oltre che per sistemi di accumulo – con il precipuo intento di accelerare la propria decarbonizzazione e bonificare la propria immagine.

Per quanto premesso, perciò, è auspicabile che la Cina intraprenda, con una trasparenza e lungimiranza oggi non troppo evidenti, un percorso netto a favore delle energie pulite e della tutela della biodiversità, incrementando il Pil nazionale, redistribuendo la ricchezza e concorrendo corresponsabilmente al fondo “Loss and Damage” per risarcire tutti quei Paesi più vulnerabili (per esempio quelli del Sud-Est asiatico) che in più occasioni negli ultimi anni sono stati travolti da eventi catastrofici. Le evidenze scientifiche sono sempre più nette: il tempo dell’ambiguità climatica è finito.

Rispetto all’uscita dalle fonti fossili com’è andata?


La Cop29 è stata assolutamente fallimentare per la quantità e la qualità degli accordi raggiunti. Nello specifico, quest’ultima Conferenza delle Parti non verrà ricordata solo per la scarsissima ambizione dei Paesi occidentali ad accelerare la transizione energetica, con un accordo finale che né rilancia il già modesto “transitioning away” della Cop28 di Dubai né evidenzia quanto si sia lontani anche dall’obiettivo di triplicare le rinnovabili entro il 2030 come da esito della Cop27, ma anche per l’improvvida dichiarazione del presidente dell’’Azerbaigian secondo cui “il petrolio e il gas sono doni di Dio”.

Da cristiani e da ecologisti dobbiamo essere consapevoli che gli unici “doni di Dio”, come si legge nella Laudato Si’ e a cominciare dalla “Madre Terra”, sono tutte le risorse naturali del pianeta che dovremmo imparare ad usare con buonsenso e razionalità per favorire condizioni diffuse di prosperità e di generatività. La solidarietà e la sostenibilità sono le due facce di una stessa medaglia, quella della giustizia sociale e ambientale che o diventa un diritto universale per tutti o rischia di diventare un privilegio per pochissimi.

Nel testo si riafferma la necessità di “riduzioni profonde, rapide e sostenute delle emissioni di gas serra in linea con i percorsi di 1,5 °C”, ma basta parlare solo di “necessità”?


Il richiamo è certamente positivo, ma se siamo arrivati dopo ventinove Cop a non avere ancora una convergenza maggioritaria sull’urgenza di abbandonare i combustibili fossili e di ridurre le emissioni climalteranti, con molti Paesi come l’Italia che continuano a sprecare miliardi per i sussidi ambientalmente dannosi, vuol dire che le stesse Conferenze sul clima, come hanno ammesso nelle scorse settimane alcuni tra i più autorevoli scienziati del clima, avrebbero bisogno di essere profondamente riformate, nell’intento di passare dalla negoziazione all’azione, dalla contrattazione alla decarbonizzazione sia perché ci sono alcuni limiti planetari ormai irreversibilmente compromessi sia perché non si dovrebbe far partecipare alle conferenze sul clima i negazionisti o i rappresentanti delle multinazionali delle fossili.

Per quanto premesso, anche l’importante risultato dell’approvazione dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi sul mercato di carbonio è da ritenersi insufficiente perché alla vera domanda posta dai Paesi poveri e dalle ong ambientaliste: “Chi paga la decarbonizzazione?”, nessuno ha risposto.

Se come annunciato da Trump a gennaio firmerà per far uscire gli Usa dall’Accordo di Parigi che conseguenze ci saranno?

Siamo nel campo dell’iperuranio. Gli Stati Uniti dovrebbero uscire, di nuovo, dall’Accordo di Parigi. E forse potrebbero essere seguiti dall’Argentina di Milei. Non sappiamo con certezza cosa accadrà, ma lo si può immaginare. Oltre al ruolo crescente della Cina, come anticipato, potrebbe crescere – e speriamo avvenga – il protagonismo dell’Unione europea che mediante le proprie politiche potrebbe orientare e condizionare soprattutto i processi finanziari internazionali.

Dalla Cop29, come dopo la Cop28, è emerso, infatti, che oltre alle banche multilaterali di sviluppo ci sono sempre più segmenti della finanza che investono e scommettono sulle rinnovabili e sulle tecnologie abilitanti la decarbonizzazione, con l’ostacolo enorme, a più livelli, delle reticenze dei governi ancora troppo incardinati sui fossili e su un modello economico novecentesco turbocapitalista che continua a produrre disuguaglianze.

Molti scienziati e studiosi sono unanimi nel sottolineare che i costi dell’inazione climatica sono esponenzialmente superiori ai costi dell’azione climatica: ossia tutto quello che non investiamo oggi in prevenzione ed educazione, potremmo essere costretti a spenderlo domani in misura enormemente maggiore per ripristinare le condizioni minime di vivibilità nelle città, senza contare il danno incalcolabile delle vittime innocenti causate dagli eventi estremi in drastico aumento in tutte le parti del mondo.

Se è un accordo debole cosa possiamo auspicare ora? Quali passi da fare per scongiurare i disastri che portano ovunque i cambiamenti climatici?


Non esiste un’unica soluzione. Parafrasando Beck, siamo dentro una moderna “società del rischio”, per cui occorre imparare a convivere, senza paura, con la complessità, cercando di trasformarla in una straordinaria opportunità di discernimento e di cambiamento, mettendo in discussione i nostri stili di vita individuali e collettivi rendendo, perciò, le nostre città un alternativo scrigno di biodiversità.

Le città, come emerge con sempre maggior chiarezza dai report internazionali dell’Ipcc o dell’Agenzia europea dell’ambiente, sono il luogo in cui continueranno a concentrarsi le speranze umane e se veramente si sfioreranno i 9 miliardi di persone entro la fine del secolo è evidente che in un rinnovato compromesso tra le istanze internazionali e le urgenze locali le città debbano diventare il prioritario presidio democratico e polo di resilienza climatica con una cittadinanza energetica distribuita in evoluti reticoli urbani policentrici che sappiano fronteggiare la crisi idrica, i rischi della desertificazione e della tropicalizzazione delle temperature, il pericolo della perdita di biodiversità e la minaccia della povertà energetica o delle disuguaglianze sociali.

Negli ultimi tre anni, l’Unione europea e i Paesi del G20 hanno impiegato decine di miliardi in armamenti e per le guerre, con migliaia di vittime innocenti. Se i finanziamenti e gli investimenti non migreranno dalle guerre alla crisi climatica non solo passeremo dai genocidi agli ecocidi, ma anche potremo dimenticarci il profumo della pace e della fraternità.

I cristiani hanno il dovere della parola e della testimonianza. È arrivato il momento che sull’esempio di San Francesco scelgano la via dell’ecologia integrale e della giustizia sociale.

Gigliola Alfaro
Fonte: Sir