La speranza, tema scelto da papa Francesco per il Giubileo, non è un semplice concetto ma una presenza viva, un modo di stare accanto anche davanti al dolore e alla morte. Monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena e Carpi, ne parlerà il 16 dicembre a Ravenna, offrendo una riflessione su come la speranza cristiana possa rispondere alle sfide contemporanee.

La speranza non si spiega, si attacca. Con un abbraccio, uno stile, un modo di stare accanto. Anche e soprattutto di fronte alla morte. È il tema dell’anno, scelto da papa Francesco per il Giubileo. E non a caso, spiega monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena e Carpi, che ne parlerà il 16 dicembre a Ravenna alla scuola di formazione teologica: «A fare oscuro l’orizzonte in questi anni ci sono state tante crisi – spiega a Risveglio –: quella ambientale, geopolitica, esistenziale, quelle dei ragazzi. C’è un orizzonte più basso, realistico, pessimistico».

Nel quale, i cristiani scelgono di parlare di speranza. Perché?

È un argomento che attraversa le civiltà e la nostra vita: la struttura fondamentale della nostra esistenza.C’è la grande speranza di una pienezza di vita che oggi si scontra con tutta una serie di crisi. Da cristiani non possiamo accodarci alle litanie di lamenti e alle nostalgie. Abbiamo ragioni da dare.

Di cosa è fatta questa speranza?

Non è un generico ottimismo che pure aiuta. È una speranza che “non delude” (Rm 5,5, dal titolo della bolla di indizione del Giubileo) perché è fondata sull’amore di Dio. Ha una forma che avvolge, parla di vita eterna. I cristiani creino esperienze, un modo di relazionarsi diverso, per trasmetterla. I nostri oratori, ad esempio, dove si può respirare la speranza educativa. Rispetto al passato, oggi, grazie anche al cammino del sinodo, noto una maggiore attesa nei confronti della Chiesa in certi ambienti. Nel mondo della cura o quello della scuola dove chiedono iniziative di formazione alla relazione e anche quello della comunicazione. C’è chi non si arrende al tritacarne della comunicazione gridata. La Chiesa ha una tradizione, e voi siete testimoni di speranza.

Come possiamo portare speranza anche di fronte alla morte?

È il cuore dell’annuncio cristiano: che Cristo è morto e risorto. Ha preso sul serio il nostro dolore e ci ha aperto la vita eterna. È come quando vai in montagna: se sai che alla fine ti aspetta un precipizio è un conto. Se invece sai che c’è qualcosa di bello vivi tutto in modo diverso, anche le difficoltà. La speranza sta nell’oggi del cammino. Ma non servono le parole. La morte di una persona cara non si spiega. Un abbraccio è un segno di Risurrezione.

Abbiamo smesso di dirlo? O lo diciamo solo a parole?

Lo diciamo in tutte le liturgie, ma non sappiamo esprimerlo nella vita quotidiana. Mi sembra succeda come in aereo quando le hostess spiegano le procedure in caso di incidente. A volte noi predicatori diciamo cose che a tutti sembrano irreali. Mentre la densità della vita eterna è tale da comprendere ogni momento della vita. Credo che oggi noi abbiamo la possibilità di parlare di pienezza, in questa crisi di senso generale. Bisogna trovare parole nuove per farlo. E soprattutto gesti: da essi possono nascere domande. Quel “bicchiere d’acqua” dato a chi ha sete…