Uno spazio nel quale garantire il diritto alla salute di tutti, anche di coloro che sono invisibili per lo Stato, ma si trovano lì, di fronte ai nostre occhi, e chiedono solo di essere curati dalla sofferenza. Sabato 9 novembre dalle 9 alle 13 il palazzo del Podestà di Faenza ospiterà il convegno dedicato agli Ambulatori solidali, promosso dalla Caritas diocesana. Per l’occasione, verrà anche ripercorsa la storia dell’ambulatorio medico Caritas e il suo impegno per il contrasto alle disuguaglianze fin dalla sua inaugurazione il 2 febbraio 1997.

Le parole di Gabriella Reggi, medico geriatra, che ripercorre la storia dell’Ambulatorio del Centro di ascolto

Tra i fondatori di questa istituzione da quasi 30 anni a fianco degli ultimi, c’è anche la dottoressa Gabriella Reggi, medico geriatra. «L’idea nacque dopo la fondazione del Centro di ascolto, avvenuta qualche anno prima – ricorda la dottoressa Reggi -. Il dottor Franco Missiroli, all’epoca direttore della Caritas diocesana, mi chiese una mano per l’istituzione di un ambulatorio medico, in quel momento ero infatti presidente dell’associazione Medici cattolici. Si voleva realizzare uno degli ultimi desideri del vescovo monsignor Bertozzi, morto nel maggio 1996, per portare a compimento tutte le attività che ruotano a attorno al Centro di ascolto, offrendo alle persone straniere e senza permesso di soggiorno, oltre alla possibilità della mensa e del dormitorio, anche quella di curarsi».

La dottoressa Reggi accettò, e da lì iniziò lo studio su come poter realizzare al meglio questo nuovo servizio, sulla base di quello che veniva fatto anche in altre realtà della regione, come Bologna o Modena. Si cercarono medici e infermieri disposti a fare volontariato nella struttura per tenerla aperta tre giorni a settimana. Passo dopo passo, l’ambulatorio prese forma e si arrivò così a quel 2 febbraio 1997, Giornata della vita, data scelta per affermare l’attenzione della diocesi alla vita e alla salute di immigrati senza permesso di soggiorno, di italiani senza fissa dimora, che non avevano accesso alle prestazioni sanitarie “di base” sia diagnostiche che terapeutiche. «All’epoca infatti negli ospedali – spiega – venivano offerte solo cure “urgenti” a chi si trovava in questa condizione non riconosciuta dallo Stato. Per fare un esempio tra i tanti, se una persona arrivava al Pronto soccorso con una colica renale, veniva sì curata nell’immediato con un analgesico per limitare il dolore, ma non c’erano poi successivi accertamenti con l’urologo per una cura definitiva, con tutti i rischi che questo comporta».

Ecco allora che l’ambulatorio Caritas poteva offrire una soluzione. «Accoglievamo queste persone, le visitavamo, offrivamo loro uno spazio sicuro per la propria cura, pur con tutti i limiti che potevamo avere. Riuscivamo a fornire farmaci, e anche visite specialistiche, ma non esami di laboratorio e altre prestazioni diagnostiche». Nel tempo si è passati dal riconoscimento agli immigrati solo del diritto alle prestazioni urgenti (oltre alla tutela della gravidanza, dei minori, l’accesso al Simap, al Sert, alle vaccinazioni obbligatorie), anche del diritto alle prestazioni essenziali . Questo ha portato, il 3 dicembre 2001, alla convenzione dell’Ausl con l’associazione Farsi Prossimo per la gestione dell’ambulatorio Caritas. Questa convenzione ha permesso di prescrivere farmaci, richiedere visite specialistiche ed esami diagnostici per tutti gli stranieri senza permesso di soggiorno (tesserino Stp), neocomunitari (Eni), profughi (Psu). «Queste sigle – sottolinea Reggi – dicono non solo le difficoltà burocratiche legate a norme diverse, e, a volte, di difficile interpretazione, dicono soprattutto la diversità degli utenti, quindi dei volti, delle storie che in questi anni abbiamo incontrato».

E di storie ne sono passate tante, esperienze faticose ma significative. «Nei primi anni mi colpirono molto le donne che venivano dall’Est che soffrivano d’ansia. I loro pensieri erano per i bambini, rimasti per esempio in Romania, mentre loro erano venute a lavorare qui come badanti. Avevano una vita spezzata in due: erano in Italia per garantire un futuro ai loro figli, ma al tempo stesso si sentivano in colpa per averli abbandonati. Ecco allora che dietro a una patologia, il nostro compito come Caritas era quello anche di fare rete per risolvere insieme una fragilità».

“Quella volta che Damiano Cavina mi aiutò andando a cercare un traduttore in una macelleria islamica…”

Poi si fanno confronti con il presente e una storia che si ripete: oggi sono gli ucraini a fuggire dalla guerra, nel 2011 in tanti scappavano dalla Libia. «Per loro non era certo una scelta quella di emigrare – dice –. Dalla Libia arrivò anche un giovane dal Ciad. Parlava solo arabo e non sapeva come fare a spiegarmi di quale male soffrisse… era già tardo pomeriggio e non c’era nessun mediatore culturale in Caritas in quel momento». Se il lavoro di medico è già di per sé complesso, lo è ancora di più quando c’è anche il problema della lingua e di trovarsi di fronte persone sole e impaurite. Ed è allora che bisogna aguzzare l’ingegno. «Per fortuna incontrai Damiano Cavina, che era già responsabile al Centro di ascolto, e chiesi aiuto a lui. Gli venne un’idea: andare in una macelleria islamica lì vicino e cercare qualcuno che facesse da interprete. Dopo un po’ tornò in ambulatorio con una persona che aveva ancora la sporta di carne in mano e ci aiutò nella traduzione dando voce a quel giovane arrivato dalla Libia».

Ed è così che in ambulatorio, quelle persone senza volto pian piano acquisiscono un nome, una storia e respirano forse per la prima volta in Italia senso di comunità.

Samuele Marchi