Fa parte della storia della città. In ogni casa a Faenza (e non solo) ci sono sicuramente un cuore, una ciotola o un set di tazze firmato da lei. Rane, pesci, gechi, lucertole e rettili colorati aggrappati al bordo di un vaso o sull’angolo di un piatto sono da anni il marchio di Mirta Morigi, oggi famosa in tutto il mondo. Uno stile contemporaneo, un po’ pop, gioioso, inimitabile e amatissimo anche da chi non è esperto in arte ceramica. La sua bottega di palazzo Barbavara, aperta da lei stessa a soli 21 anni è un’inarrestabile fucina di idee e progetti dove lavorano anche la figlia e le ‘girls’, ognuna con un compito ben preciso. Vasi, piatti e ciotole parlano anche di loro e di una realtà tutta la femminile dove la parola d’ordine è condivisione. Quest’anno la bottega Morigi festeggia i cinquant’anni di attività e lo fa con una mostra negli spazi espositivi di Santa Maria dell’Angelo.
Intervista a Mirta Morigi: “Dall’inizio della mia carriera devo dire grazie a tutti coloro che ho incontrato”
Mirta, cosa troveremo nella mostra?
Ho cercato di essere me stessa, tutto è venuto quasi come per magia. Il pubblico troverà forse cose che non si aspetta. Ad esempio dei vecchissimi banchi di scuola, con i nomi incisi. Poi i pezzi che hanno fatto la storia della bottega, ma anche ‘cocci rotti’. Mentre allestivamo la mostra il primo e l’ultimo pezzo che abbiamo portato sono caduti, così abbiamo deciso di lavorare anche sul rotto, perché la ceramica è fragile per natura. E imprevedibile. Non si sa mai come salterà fuori dal forno.
Come è nata l’idea di ispirarsi a pesci, rettili e anfibi?
Sono stata una bambina di campagna e gli animali hanno sempre fatto parte del mio immaginario. Intorno ai 20 anni ho praticato fotografia subacquea con il grande Sergio Montanari. Seguendo i cicli biologici degli animaletti dei nostri stagni, fiumi e fossi sono nati in me amore e riconoscenza per questi animali, che hanno un grande valore per il territorio. Se è rovinato non cantano e non si riproducono. Oggi, per fortuna, abbiamo di nuovo i fossi pieni di rane, ma denunciare a suo tempo questo problema attraverso il mio percorso artistico è stato importante per portare l’attenzione su queste fragili vite. Non credo di aver inventato nulla di nuovo, la rappresentazione di animali esiste in tutte le culture ceramiche, ho solo seguito un percorso già tracciato.
Però la sua arte è originale.
La ceramica di un artista deve essere riconoscibile. A me non piace alzare un pezzo per vedere chi l’ha fatto. Poi ci vuole tempo, anni a volte, prima che un prodotto possa finire sul mercato. Quando hai un idea e la sviluppi, ne può uscire un prototipo che non è ancora pronto per essere venduto.
La sua avventura nel mondo della ceramica è iniziata fin da bambina.
Non ho nemmeno avuto il tempo per desiderarlo. A 11 anni ho iniziato ad andare a scuola di ceramica ed è stato da subito un fatto vero e quotidiano.
Dopo aver frequentato l’istituto d’arte per la ceramica Ballardini e alcune botteghe, decide di aprire la propria nel 1973, a soli 21 anni, nella corte di Palazzo Barbavara. Cosa ricorda degli esordi?
È stato tutto logico e naturale, ero pronta. Per i primi dieci anni mi sono attenuta a quello che sapevo fare. Avevo avuto esperienza di graffito. Cercando di personalizzare quello che facevo, mi attenevo a canoni ceramici, rivisitando gli stili che conoscevo e rendendoli personali. Via via poi si impara e si diventa abili, si incontrano persone da cui si impara qualcosa. Il mio percorso è andato di 10 anni in 10 anni. Sono partita con il graffito, poi è arrivato il granito, e dopo la maiolica. Successivamente, grazie all’incontro con i ragazzi dell’Isia è stata la volta di cani, gatti e cervi a livello pittorico. Solo dopo sono arrivati gli animali tridimensionali.
In cinquant’anni di attività ha tenuto mostre personali in Italia e all’estero, partecipato a collettive e a concorsi in giro per il mondo: Australia, India, Cina, Giappone, Corea, Turchia. Qual è stata la sua soddisfazione più grande?
Per me la cosa più importante è la condivisione, altrimenti l’arte non ha senso. Grazie anche alla curiosità e ai viaggi ho ampliato il mio modo di interpretare ciò che faccio con suggerimenti e idee. Tutti gli incontri sono stati occasioni di crescita. Dall’inizio della mia carriera devo dire grazie a tutti coloro che ho incontrato, perché questo mi ha consentito di evolvere professionalmente. Ognuno prende, mette dentro, ingerisce, elabora e questo credo che tutti gli artisti lo abbiano fatto, con la differenza che qualcuno ‘risputa’ fuori qualcosa di più bello.
Poi c’è la sua bottega al femminile.
Venendo da una struttura di bottega, per me sarebbe impossibile lavorare da sola. Oggi molti sono purtroppo costretti per necessità a lavorare da soli. Sono un’imprenditrice, ho delle collaboratrici e insieme siamo la Bottega Morigi. Giotto aveva 25 dipendenti io ne ho quattro, non chiedetemi se faccio tutto io, perché raramente un pezzo non è toccato da tutte. Da me sono passati in tanti, alcuni miei ex dipendenti hanno poi aperto la loro bottega come ad esempio Fiorenza Pancino o Simona Serra.
Lei ha ricevuto il riconoscimento di Maestra d’Arte e Mestiere, cosa significa trasmettere il sapere?
In 50 anni quello che si deposita si può perdere in un baleno e per ricostruirlo ce ne vogliono altrettanti. Per questo è fondamentale consegnare il proprio sapere alle nuove generazioni. Non ci si può tenere tutto per sé, l’arte va condivisa.
Come vede il futuro delle botteghe ceramiche a Faenza?
Il mondo è completamente cambiato rispetto a quando ho iniziato io. Oggi purtroppo di botteghe come la mia, con più dipendenti, ce ne sono poche e questo trend è destinato a crescere se non arriveranno regole nuove e qualche aiuto. Faenza è un’eccellenza a livello nazionale, ma dobbiamo guardare al mondo. In Italia mancano le scuole per la ceramica e, soprattutto mancano le università, il rischio è che venga meno il ricambio generazionale.
Barbara Fichera