Tutte le volte che vedo un atomizzatore che passa velocissimo a spargere antiparassitari fra i filari dei tanti vigneti e frutteti della nostra campagna, mi viene da pensare che quella mo è stata proprio una bella conquista par i nòstar cuntade˜. Chi lo usa se ne può stare comodamente seduto nella cabina del trattore superaccessoriato, pure dotato di aria condizionata, e di lì può dirigere tutte le varie operazioni che sono da fare.
Quando si faceva tutto a mano
Un bël càpar d’difare˜za cun e’ dê l’acva al vid dei miei anni giovanili! Non posso proprio non fare a meno di pensarci a quei tempi là in cui i miei erano mezzadri a i Balarde˜, il podere di San Biagio che si estendeva per un centinaio di tornature fra la via Emilia e la via Banaffa. Al piante¯ (i filari a schioppo che separavano al tër), erano tante, lunghe che non finivano mai e per salvare dalla peronospera la produzione di settecento e passa quintali di uva, dai primi di maggio a fine giugno, a settimane alterne (se la stagione andava per il verso giusto) e per un paio di giornate, u j era da dê e’ sulfêt al vid. Era un lavoro lungo, faticoso e noioso che teneva impegnate una vacca e tre persone. La vacca aveva da tirare pazientemente e’ pumpõ, una botte di legno da circa tre quintali a cui era applicata una rumorosa motopompa a petrolio. Dal tre parsôn, invezi, una guidava la mucca con tante soste e ripartenze a la lónga dal piante¯, mentre le altre, ciascuna con un’apposita canna collegata a e’ pumpõ cun na budëla ‘d góma lunga parecchi metri, insolfatavano ben bene la fója dal vid stando, una diritta sull’esterno del filare, l’altra ingobbita sotto i tralci.
Il solfato di rame e la calce nel grande mastël d’zime˜t
Mio padre e lo zio Guido, prima di dare inizio all’operazione, avevano preso dal sacco d’urtiga riposto nell’angolo più asciutto del casone la quantità necessaria di cristalli di solfato di rame e li avevano fatti sciogliere. A quel liquido di colore azzurro intenso aggiungevano della calce e vuotavano poi il tutto nel grande mastël d’zime˜t, riempito con l’acqua del pozzo e rimestavano a lungo con una specie di rabiël, prima di immergervi la cartina tornasole. In base alla sua colorazione azzurra o rossa capivano se il dosaggio era giusto ed erano pronti a riempire e’ pumpõ. Il babbo tirava fuori dalla stalla la Murìna, una vacca dal pelo abbastanza scuro, forte, paziente e, come diceva lui, cun l’inzegn d’un s-ciân. Le metteva e’ zuvèt, lei rinculava tranquillamente fra le stanghe de pumpõ e si partiva per il campo. A stê dne˜z a la vaca, a parte la mattina quando ero a scuola, toccava sempre a me e devo dire che non è che mi piacesse molto. Per fortuna c’era la Murìna, la mia vacca preferita, che con la sua paziente intelligenza mi dava la possibilità di qualche diversivo.
A stê dne˜z a la vaca, la relazione speciale con Murina
Ciô, a forza di stare tante ore insieme, si era creata fra di noi una specie di empatia; insomma ci capivamo, o meglio era lei che capiva i miei ordini ricambiando, forse, le attenzioni che le riservavo. Fra queste, in primis, c’era la cattura dei tafani che la tormentavano pungendola nel collo e attorno agli occhi. Li prendevo e con i più grossi ci giocavo ai corridori: dopo avergli dato un nome (Coppi, Bartali, Anquetil, Baldini) e dopo aver infilato una pagliuzza nel sedere dei tafani, li liberavo; volavano via ronzando e io assegnavo la vittoria a quello che era partito più veloce. Durante le soste fra uno spostamento e l’altro de pumpõ, mi divertivo anche a cercare i nidi nel filare de cânt d’là dla tëra, parallelo a quello a cui si dava l’acqua. Lasciavo sola la Murìna, pronto però a urlarle «Va!», quando babbo e zio le arrivavano vicino. La mucca partiva piano piano come suo solito e si fermava non appena le gridavo «Ôis!». Ritornavo poi da lei di corsa e le portavo un mazzo di foglie o un caspo d’erba che lei mangiava sempre molto volentieri. Alcune volte rompevo così la noiosità di quel lavoro accompagnato dai continui scoppiettii della motopompa, altre invece, specie se il tempo si girava al brutto e i miei ci davano alla svelta per bagnare più viti che si poteva, mi toccava per forza di star lì e il tempo non passava mai. Quando finalmente si tornava a casa, babbo toglieva e’ zuvèt a la Murìna, la faceva uscire dalle stanghe de pumpõ e io la portavo prima a bere int l’ebi, poi nella sua posta nella stalla. Il babbo e lo zio Guido verniciati di azzurro dalla testa ai piedi per via dei tanti sbróf d’sulfêt che avevano preso, correvano a cambiarsi e a lavarsi per togliersi di dosso quel taccone che li faceva assomigliare ai Puffi tanto in voga nella fumettistica di oggi. Io invece, prima che la mia mamma mi infilasse nella mastella già pronta in mezzo alla stalla davo un po’ di fieno alla Murìna, le passavo una mano sul muso ancora umido e lei mi ricambiava con il ruvido della sua linguona.
Mario Gurioli