Le conoscenze da sole non bastano, specie alle elementari. Lo sapeva bene Alberto Manzi, famoso nei primi anni Ottanta per avere timbrato sulle schede di valutazione la frase: “Fa quel che può. Quel che non può non fa”, rifiutandosi di bollare i ragazzi con i giudizi sintetici. Un’azione eclatante, che la dice lunga sul senso della valutazione, specie sui più piccoli. Dei giudizi sintetici, nuovamente introdotti dal ministro Valditara a partire dal prossimo anno scolastico, abbiamo parlato con Fabio Taroni, pedagogista che da oltre trent’anni lavora in ambito educativo e formativo e che insegna matematica e scienze alla primaria Don Milani di Faenza.

Dottor Taroni, il giudizio sintetico fa chiarezza come sostiene il ministro, o è un sistema da superare?

Con il giudizio sintetico si fa un passo indietro, altro che chiarezza. Si misura solo in base a ciò che il bimbo sa o fa, piuttosto che quello che è, e vale. Non si può ridurre tutto a un giudizio, che di fatto diventa un’etichetta. Gli alunni hanno bisogno che venga loro detto “bravo”, “hai fatto un buon lavoro”, servono dialogo e relazione. Un giudizio negativo segnala un problema su una competenza: è lì che bisogna agire casomai. I bambini non sono macchine, ciò che un bimbo sa non è sufficiente per valutarlo: contano il suo percorso, la fatica che ha fatto, ma anche il suo background familiare e culturale.

Meglio dunque i giudizi descrittivi anche se considerati poco chiari?

Senza dubbio, almeno si era fatto un passo in avanti. Migliorabili, certo, ma un progresso enorme rispetto ai voti, in vigore fino a tre anni fa. Quello che i giudizi descrittivi si pongono come obiettivo è il processo di apprendimento e non il prodotto finale. Valutano il percorso didattico del bambino, inteso in modo integrale. I giudizi sintetici, invece, misurano.

In che senso?

Sono un marchio che ti resta appiccicato addosso nel tempo e diventano, ahimè, anche il parametro nelle relazioni con gli altri. ‘Gravemente insufficiente’, la forma più penalizzante, marchia il bimbo come quello ‘stupido’, che non ‘vale’. Valutare significa invece ‘dare valore’ e non segnare per sempre qualcuno perché non sa fare le divisioni, vuol dire prendersi cura della persona. Se un bambino porta un compito non corretto, il messaggio che deve essere veicolato è ‘tu vali, c’è solo qualcosa che non hai capito’. A me piace un sistema dialogato e le diciture attuali, per quanto migliorabili, vanno in questa direzione. Valditara non ha preso minimamente in considerazione questi aspetti.

Ci sono insegnanti favorevoli?

Certo, perché semplifica il lavoro dei docenti: ‘buono’, ‘ottimo’, ‘sufficiente’, sono direttamente collegati ai voti e quindi più facili da gestire, per certi versi. Non ci raccontano però assolutamente nulla di ciò che il bambino è, del percorso che ha fatto, dei suoi talenti. Sono tre anni che stiamo aiutando le famiglie nella comprensione delle diciture e adesso che si fa? Si torna indietro? Frasi così importanti per lo sviluppo dell’autostima in un bambino tipo “Sei molto in gamba” le diciamo solo a chi prende ottimo? La scuola deve essere democratica, inclusiva, e, soprattutto, dare valore al singolo bambino. Vuol dire scendere, prendersi cura di lui nel punto e nella condizione in cui si trova.

Guardare alla persona piuttosto che a registri e programmi?

Dobbiamo metterci in testa che non siamo cattivi maestri se non portiamo i bimbi al livello dei programmi ministeriali. I traguardi da raggiungere riguardano la competenza e non le conoscenze, che lasciano un po’ il tempo che trovano. Quel bambino è in grado di stare al mondo per l’età che ha?

Voti e giudizi sintetici portano ad instaurare un clima competitivo in classe anche fra i più piccoli?

Ci sono quelli che vogliono far vedere di essere ‘bravi’ a discapito degli altri. Utilizzare il giudizio come input positivo trasforma la scuola in una società delle prestazioni ad ogni costo. Con bambini che entrano in classe non con la gioia dell’apprendere ma con l’ansia dell’essere etichettati.

E le famiglie?

Da anni facciamo percorsi di dialogo e inclusione e non c’è mai stato nessun problema. Ai genitori va ricordato che al centro della scuola non c’è il programma, ma gli alunni. Le energie vanno spese per mantenere viva la loro curiosità, la capacità di meravigliarsi, la voglia di conoscere. Il materiale vero lo portano i bambini e noi dobbiamo essere capaci di risvegliare il loro interesse con un linguaggio comprensibile. Come il gioco, ad esempio e poi attività come il teatro o l’arrampicata oggi considerati di serie b. I genitori vanno aiutati a capire a che punto è il percorso scolastico del bambino, senza che questo diventi un giudizio di valore.

A Valditara cosa direbbe?

Intanto che è ora di smettere di fare riforme che portino il nome del ministro attuale solo per essere ricordato e poi che un sistema meritocratico è svilente e superficiale. C’è bisogno di andare in profondità, di valorizzare i talenti e l’unicità di ciascuno. Il mondo della scuola non viene mai interpellato quando si fanno queste riforme, sempre calate dall’alto. Nessuno si è preoccupato di chiedere a noi insegnanti, che abbiamo il contatto diretto e quotidiano con i bambini e quindi con i loro bisogni e necessità.

Barbara Fichera