Durante i Lõn ad mêrz si è parlato dei garzoni e della loro festa (la Madóna di garzõ, 25 marzo), ma senza scendere troppo nei particolari e questo ha suscitato la curiosità di alcuni dei presenti che avrebbero voluto saperne di più.
Gli ho promesso che avrei approfondito l’argomento su Il Piccolo e, siccome ogni promessa è debito, io lo pago qui seduta stante.
Fino agli anni ‘50 del secolo scorso l’agricoltura romagnola, data l’ancora scarsa diffusione della meccanizzazione, si basava principalmente sul lavoro manuale e spesso le braccia dei componenti di una famiglia non erano sufficienti per mandare avanti un podere.
Per questo motivo molti dei nostri contadini assumevano una persona (e’ garzõ) che durante tutto l’anno li aiutava nei lavori del campo, della stalla e non solo.
Orfani, trovatelli o poveri i garzoni non avevano nè stipendio nè giorni di riposo, ma solo vito e alloggio
Nei poderi più grandi, a volte, ne erano presenti anche due o più, uno di solito in età adulta, gli altri quasi ancora bambini (i garzunzèl).
Fino agli anni successivi al secondo dopoguerra i garzõ provenivano quasi sempre dalle famiglie più povere della collina romagnola che non avevano di che sfamarli oppure dagli istituti per trovatelli o dagli orfanotrofi delle città.
Il loro lavoro di bambini veniva ricompensato con vitto, alloggio e qualche capo di vestiario usato; divenuti grandi, e’ dè dla Madóna di garzõ, ricevevano anche una paga. Quello era l’unico giorno di riposo in tutto un anno a cui avevano diritto e i più, con il magro stipendio in tasca, lo trascorrevano nelle osterie dei paesi a mangiare, bere e divertirsi insieme ai loro amici. In quello stesso giorno c’era l’usanza ‘d fê Madóna, cioè di cambiare datore di lavoro sperando di trovarsi in condizioni migliori e di guadagnare qualcosa in più nella nuova casa in cui si andava a lavorare.
Le storie di ex garzoni
Di ex garzoni ne ho conosciuti diversi e ho avuto modo di ascoltarli più volte mentre raccontavano la storia di una gioventù non facile trascorsa presso famiglie che gli erano estranee.
Pirì (classe 1910), uno zio preso di mia moglie, proveniva da Casola Valsenio e a cinque anni era rimasto orfano di padre. La madre, poverissima, non era in grado di mantenere tutti i suoi figli, così lo mise come garzone presso un parente che, in cambio di vitto, alloggio e qualche straccio usato, lo prendeva molto volentieri per portare alla pastura le pecore o i maiali. La realtà in cui Pirì venne a trovarsi si rivelò disastrosa: la mattina quando, con qualsiasi tempo, doveva partire per il pascolo, gli veniva dato un tròcal d’ pân da bagnare nell’acqua e con quello doveva arrivare fino a sera, quando rientrava e veniva mandato a letto con poco altro.
Dopo tre mesi sua madre volle andare a trovarlo e lo fece sapere a quei parenti che, per figurare bene con la donna, prepararono perfino i cappelletti. Il bambino li mangiò di gusto, ma il suo stomaco, ormai abituato solo a pane e acqua, non li sopportò.
Salvato in extremis dal medico del paese, Pirì fu tolto da quella famiglia, ma fu mandato per garzone in un’altra dove invece si trovò benissimo e vi si fece grande. Da Casola venne poi, ancora garzone, a Cassanigo e lì mise su famiglia sposando una sorella di mia suocera.
Un altro bambino messo per garzone da piccolo è stato Guido ‘d Tughì (classe 1918) che abitava alla Cosina e a sei anni , quando frequentava la prima elementare, fu mandato presso una famiglia di mezzadri di San Biagio con la medesima paga di Pirì, ma con il patto che avrebbe dovuto frequentare la scuola fino alla seconda. Dato che in quella casa gli trovavano sempre qualcosa da fare, la maestra lo vide molto poco; ripetè la prima per ben tre volte e poi smise del tutto. Lui diceva che per tanti contadini il garzone e’ vneva dòp a e’ cân quindi, fattosi grande e continuando a fare quel mestiere fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, prese la decisione di cambiare padrone tutti gli anni perchè secondo lui questo era l’unico modo per poter migliorare la propria situazione.
I garzoni erano all’ultimo gradino della scala sociale
I garzoni infatti erano tenuti in scarsa considerazione, venivano sfruttati e presi in giro, subivano anche dei veri e propri atti di cattiveria ed erano relegati nell’ultimo gradino di una scala sociale da cui era quasi impossibile risalire.
Pirì e Tughì ce la fecero a venirne fuori e, come loro, anche altri, quelli che avevano avuto la fortuna di finire presso famiglie in cui erano rispettati e trattati bene. Alcuni entrarono addirittura a far parte con un matrimonio o rimanendo presso i datori di lavoro per tutto il resto della loro vita. Dal dopoguerra in poi il mestiere del garzone si andò via via riducendo: prima lo abbandonarono i romagnoli (impegnati sempre più in altre attività), poi anche i meridionali che li avevano sostituiti e la sempre più diffusa meccanizzazione dell’agricoltura moderna fece scomparire per sempre il duro e vecchio mestiere del garzone.
P.S. Vi ricordo che ai Filodrammatici L.A. Mazzoni sabato 6 aprile alle 21 e domenica 7 alle 16.30 la Filodrammatica Bertòn presenterà il musical Suorprise. Prenotazioni al numero di cellulare 377 3626110, su Whatsapp attivo tutti i giorni.
Oppure acquistare i biglietti direttamente nella serata e nel pomeriggio di spettacolo.
Mario Gurioli