L’altra sera, su La7, Federico Rampini, editorialista del Corriere della Sera, ha ricordato come vengono comunemente definiti negli Stati Uniti i prossimi contendenti per le elezioni presidenziali che si terranno il 5 novembre prossimo: la sfida tra il “deficiente” (Biden) e il “delinquente” (Trump), con riferimento al primo che comincia a cedere sotto il peso dell’età e alla spregiudicatezza del secondo, in tutti gli ambiti in cui finora ha operato. Ebbene, Joe Biden, nel discorso sullo Stato dell’Unione, pronunciato quando in Italia era la notte tra giovedì e venerdì, ha dimostrato di aver ancora in mano il pallino della partita. E milioni di suoi sostenitori in ogni angolo del paese hanno tirato un grosso e collettivo sospiro di sollievo, non perché il discorso gli abbia dato la certezza che Biden vincerà le elezioni, ci mancherebbe altro, ma perché sono tornati a pensare che Biden possa vincere. Il Presidente USA si è chiuso tre giorni a Camp David con il suo staff per provare e riprovare il discorso e soprattutto la sua interpretazione, per enfatizzare adeguatamente i passaggi più importanti, per simulare gli scambi improvvisati con i parlamentari e le reazioni a contestazioni e imprevisti. Il margine di errore si è rivelato inesistente.
Biden ha aperto il discorso con una battuta autoironica(“Buonasera. Se fossi furbo, chiuderei qui il discorso”), per disarmare gli interlocutori, e poi ha proseguito con gran solennità presentando con orgoglio i suoi risultati di questi anni alla Casa Bianca, accusando duramente i Repubblicani di essere pericolosi e inadeguati a guidare il paese in un momento così complesso. Sono le cose che Biden dice spesso, stavolta pronunciate con molta più efficacia. È andato avanti con decisione, ma quando è stato interrotto ha saputo cavarsela con efficacia e tempismo, parlava come se volesse prendere a schiaffi qualcuno. Non ha confuso il Messico con l’Ucraina e i giornalisti, fin qui spietati con la sua immagine precaria e fragile, hanno parlato di performance “vigorosa”, “rassicurante”, “concentrata”, “energica”. Se nelle prossime settimane il comportamento e le prestazioni di Joe Biden si manterranno su questo livello, le discussioni attorno alla sua età potranno non prendersi tutto lo spazio possibile. In un certo senso Biden è tornato alle origini, quando era il Vice di Barack Obama, che basava la sua visione sulla speranza (“Yes we can”), mentre quello di Donald Trump è incentrato sulla “paura”: la speranza occupa quello spazio fra la fantasia e la certezza, è il campo delle possibilità. È improbabile che un uomo di colore divenga presidente di questo Paese, ma nel 2007 è successo. Bisogna ispirare il senso di capacità delle persone, la volontà d’azione individuale e collettiva. Questo porta in una direzione costruttiva.
Se metti a confronto Obama, e ora Biden, con Trump, hai due direzioni opposte verso cui andare. Certo, a prima vista sembra che Trump abbia più leadership di Biden, però bisogna distinguere fra leadership e demagogia. La leadership non è controllo, ma legittimazione: non è una lotta solitaria, ma la capacità di stimolare un’evoluzione collettiva. Trump è un demagogo molto potente, ma è un pessimo leader perché non fa nulla per accrescere il potere della sua gente. Anzi, ne sfrutta le debolezze. Biden sa umanizzare la leadership, questo gli permette di connettersi con le persone. E ha ottenuto risultati notevoli, se ne possono intravvedere i risultati (l’economia americana nel 2023 è cresciuta del 2,5%). Ovviamente ha i suoi problemi: questo lo sa anche lui. Se volessimo sintetizzare, Trump è “Yes I Can”, Obama era “Yes We Can”: è una differenza enorme e Biden deve essere capace di convincere gli americani che insieme ce la possono fare a incidere su una situazione mondiale che sta cadendo a pezzi. Su questo, nei prossimi otto mesi, avremo modo di riflettere in abbondanza!
Tiziano Conti