L’aria che respiriamo è malata. Una malattia silenziosa, che provoca ogni anno 60mila morti premature in Italia. I dati della qualità dell’aria registrano la Romagna e la Pianura Padana tra le peggiori aree al mondo, quattro volte oltre al limite fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Anche Faenza non è immune, come testimoniano i livelli registrati nei giorni scorsi. Le ordinanze di limitazioni al traffico nelle giornate più critiche non sono una soluzione. “La cura? Inutile girarci intorno: serve un cambio di paradigma nella produzione energetica. Bruciare meno e usare tecnologie rinnovabili”. A sostenerlo è Nicola Armaroli, dirigente del Cnr e membro dell’Accademia nazionale delle scienze.
Intervista a Nicola Armaroli, dirigente Cnr
La transizione ecologica come cambio di passo necessario per l’ambiente, ma anche per i nostri polmoni. Professor Armaroli, perché l’aria della Pianura Padana è così malata?
Il problema di fondo è geografico. La Pianura Padana, che su tre lati è circondata da catene montuose e sul quarto dà sul mare, ha la conformazione di un catino d’accumulo. E, quando c’è alta pressione (quelle appena trascorse, storicamente, sono le settimane peggiori dell’anno) l’aria ristagna e l’inquinamento si accumula. Questo avviene in una delle aree più densamente popolate e industrializzate del pianeta e questo peggiora la situazione. Ha il suo peso anche l’agricoltura intensiva, per l’uso, in particolare, di certi fertilizzanti azotati che hanno un forte impatto. Ce ne siamo accorti in pandemia. Diverse industrie erano ferme, così come il traffico, ma il tasso di inquinamento rimaneva alto. Quindi c’è tutta una serie di concause antropiche e naturali, inclusa la diminuzione di precipitazioni e il cambiamento climatico, che rendono l’aria della nostra regione critica, con la Romagna leggermente avvantaggiata rispetto all’Emilia a causa della vicinanza del mare.
Quali sono le cause principali dell’inquinamento dell’aria?
Ci sono troppe combustioni. In altre parole: bruciamo troppo. Anche il metano, un gas cosiddetto “pulito”, non è immune da problemi. Le combustioni, che avvengono in aria e non in ossigeno puro, formano ossidi di azoto, precursori per la formazione di pm2.5 (polveri sottili) e ozono, che sono inquinanti secondari. Il particolato atmosferico che respiriamo per immissione diretta da auto, impianti industriali ecc… è solo il 20-30%. La maggior parte di questo inquinante si forma in un secondo momento in atmosfera, ma è sempre frutto di quelle combustioni.
Cosa fare dunque?
Inutile girarci intorno. Serve un cambio di paradigma del sistema energetico: bisogna smettere di bruciare per fare energia. Ecco perché diviene fondamentale la transizione ecologica, con tutto ciò che comporta anche in termini di cambio di abitudini individuali e collettive. E dobbiamo fare questo non ‘perché ce lo impone l’Europa’, ma perché continuare con questo sistema fa male alla nostra salute e al pianeta. E oggi abbiamo tutte le tecnologie per farlo, ma finché, per esempio, non toglieremo dalle strade milioni di automezzi che scaricano CO2 e inquinanti in atmosfera non ne usciremo. La legislazione per mettere progressivamente da parte sistemi a combustione (es. automezzi, caldaie) c’è, ora tutta la società deve andare verso questa direzione. Il mondo agricolo, per fare un esempio, deve vedere la transizione ecologica come un’opportunità, non come una minaccia. La vera minaccia per gli agricoltori sono gli effetti del cambiamento climatico. Il problema della qualità dell’aria non nasce però solo dalle strade, dalle fabbriche o dai campi. Avviene anche dentro le abitazioni.
In che senso?
La qualità dell’aria nelle nostre case è mediamente cattiva, specie d’inverno quando teniamo chiuse le finestre. Caldaie di vecchia generazione e fornelli a gas sviluppano inquinamento anche dentro le nostre case. Quindi il problema riguarda tutti gli ambienti in cui viviamo. Questo significa fare un cambio di sistema e ognuno deve fare la propria parte, senza aspettare che il cambiamento sia imposto dall’alto.
Quali strade concrete si possono attuare per avviare questo cambiamento?
La buona notizia è che le soluzioni ci sono, bisogna però agire. La promozione del trasporto pubblico è fondamentale e va incentivata il più possibile. Nell’ambito privato, occorre accelerare la sostituzione delle caldaie con pompe di calore o l’uso di fornelli a induzione. Un aspetto essenziale è lo sviluppo di sistemi di autoproduzione elettrica nelle abitazioni e nelle industrie tramite pannelli fotovoltaici, con uno sguardo alle opportunità fornite dalle comunità energetiche. Non ci accorgiamo di quanta energia letteralmente ci piove sui tetti e va sprecata. Poi ci sono innovativi sistemi di agrivoltaico, con pannelli messi a tre metri da terra, che non ostacolano le coltivazioni.
Perché dunque la transizione ecologica ha ancora così tanti oppositori?
È innanzitutto un problema culturale. C’è sempre forte resistenza mentale al cambiamento: il classico “si è sempre fatto così!”. Tutti siamo terrorizzati all’idea di cambiare, e in questo il sistema dell’informazione deve fare di più e meglio. In seconda battuta c’è ancora la resistenza di grandi aziende energetiche che gestiscono lo status quo e rallentano il processo.
Chi è Nicola Armaroli
L’attività scientifica di Nicola Armaroli riguarda la fotochimica e la fotofisica: materiali luminescenti e sistemi per la conversione di luce in energia elettrica e combustibili. Nella sua carriera ha svolto ricerche innovative nel campo dei sistemi complessi, dei movimenti molecolari indotti dalla luce e degli assemblaggi multicomponente. Studia inoltre la transizione del sistema energetico globale verso modelli più sostenibili, anche in relazione al cambiamento climatico e alla scarsità di risorse naturali. Svolge attività di consulenza e comunicazione scientifica per il grande pubblico sui temi dell’energia, delle risorse naturali e dell’ambiente.