Se vuoi incontrare Martino Zaccheroni, 82 anni, devi passare al bar Porta Nova da Remo al mattino o dopo pranzo. Due chiacchiere in dialetto russiano le fa sempre volentieri. Un po’ mangiapreti, ma sempre in mezzo ai preti, come dice lui stesso. Già operaio della Gallignani, Martino aveva un amico che tutti chiamavano Meco, Domenico Drei. «Meco l’era un bucalò (parlava sempre), ma quanto sono stato male quando è morto». Al punto di pensare di smettere tutti quei viaggi fino alla comunità di Sasso, a Popolano di Marradi, cominciati proprio su invito suo, che andava su a salutare i tanti russiani che in quei travagliati anni ’80 finivano ospiti di don Nilo Nannini nel tentativo di smetterla con la dipendenza dalle droghe. Una di quelle volte si alzò una voce: «facciamo merenda». Martino ricorda ancora quella pancetta appesa al soffitto che emanava un odore non dei migliori. «A farla così sono buono anch’io!». Non l’avesse mai detto. «Perché tu come la faresti?». E per farla breve si programmò il primo maiale da uccidere, poi altri due, quindi quattro o cinque alla volta, e così per quasi quarant’anni di fila.

Un rapporto all’inizio difficile con i preti, ma dopo don Nilo Nannini ne ha conosciuti tanti altri

Ci fu discussione sugli aromi e le quantità da usare. Ma alla fine Martino decise che la proporzione base doveva considerare 2 etti e mezzo di chiodi di garofano, 2 etti di cannella e 3 di pepe, tutto macinato fine e spolverato sopra il pezzo lavorato. Pancette, salsicce e salami, e il resto. Tutto un altro profumo, tutto un altro gusto; una modalità ancora in uso ora che la comunità oltre a vendere i suoi prodotti su diverse piazze, servendosi di un camion frigo, ha pure inaugurato un negozio in centro a Marradi. Passando da quelle parti, è un punto presso cui ci si deve fermare.

Ma andare in comunità negli anni ’80 non era facile. Morivano diversi giovani per droga ed effetti collaterali, ma soprattutto morivano anche i figli dei cosiddetti “tossici”. E questo dei più piccoli (una sorta di piccola strage degli innocenti) era il fatto più difficile da sopportare. Ma all’idea di smettere quella frequentazione, Meco esclamava: «Tsì gnurént, a vut lascèm da par mé?». (Sei ignorante, vuoi lasciarmi solo?).

Quando si decideva di uccidere maiali, Martino era pronto, prendeva su le armi del mestiere che gli dava e “cavalir” e via. Qui il ricordo va anche alla volta che fuori Faenza una pattuglia di Carabinieri gli chiese conto di quel mucchio di armi bianche, alla rinfusa, dentro una mastella. Fu lunga a spiegare che doveva andare dal prete a far su un maiale. Dunque, se volevano un perché e altre informazioni dovevano chiederle proprio a lui, a quel prete che lo stava aspettando lassù.

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Se Meco è un ricordo indelebile, tanti altri sono i russiani con cui Martino ha condiviso e condivide l’amicizia con Sasso. Dalle sorelle Rossi, Marcella e Mirella, a Michele Graziani. E ci sono stati anche alcuni macellai di quelli di professione. Dal pensionato Minghèl (Bruno Sintini) che Martino ingaggiò così: «At dègh e dopi ‘d quel ca cièp mè» (ti do il doppio di quello che prendo io), al figlio di Edgardo Ricci, che a Russi aveva una macelleria di fronte alla “fontana degli Amori”. Ora sono altri a macellare e a far su i vari pezzi. Martino con Paola, figli e nipoti, ogni tanto va a Sasso. È contento di quest’amicizia consolidata negli anni. «Col prete (don Nilo) ci siamo sempre capiti, nel segno della verità». Certo che il peso di quel ceffone ricevuto da un sacerdote quando era ancora bambino per Martino è rimasto vivo nella memoria, e in chiesa da allora è entrato ben poche volte. Ma di fatto ha accumulato anni di servizio al prossimo e frequenta preti più di tanti altri. Risultato di rilievo per un mangiapreti dichiarato. Con don Marco ci ha rimediato anche un “livar da mèsa” (libro da messa) da collocare sopra un leggio in ferro battuto. Ora è nell’ingresso di casa, sempre aperto sulle letture del giorno.

Giulio Donati