Fra la girandola di prove che sono in corso nel teatro dei Filodrammatici L.A. Mazzoni per la messa in scena di vari spettacoli della rassegna 2023-24, ci sono anche quelle di Tri dè int e’ foran vëc, uno dei cavalli di battaglia della Bertòn, che potrete rivedere per due weekend nel prossimo novembre. I tanti modi di dire e le tipiche frasi in dialetto che accompagnano dall’inizio alla fine lo svolgimento del fatto, ogni tanto suscitano la curiosità degli attori più giovani che, poco addentro alla lingua e alle tradizioni romagnole, mi chiedono di spiegargli il significato e magari anche l’origine di quelle espressioni.

Cosa sono “i scurs che fase˜ la brèca a l’êsan”?

È successo anche l’altra sera, quando la Carôla, a metà circa del secondo atto, ha pronunciato la battuta «Cvist j è i scurs che fase˜ la brèca a l’êsan», che in italiano è come dire «Sono dei discorsi che non prendono in niente». Considerato l’interesse dei miei giovani interlocutori, dopo aver chiarito l’enigma di quel modo di dire in cui sono protagonisti il somaro e la brèca, che è poi la sua signora, mi è venuto da buttarne lì qualcun altro di quelli con cui i nostri vecchi, prendendo lo spunto dal variegato mondo delle bestie che li circondavano, mettevano in risalto i pregi o i difetti del genere umano. Beh, credetemi, data l’abitudine dei nostri giovani a fare le ore piccole, saremmo rimasti lì fino a mattina, ma la mia stagionatura non me lo consente più, così, verso mezzanotte li ho lasciati con la promessa che quell’argomento l’avrei messo nero su bianco qui sul Piccolo.

I modi di dire che nascono dagli animali dell’aia

Comincio dalle varie specie di pennuti che formavano il pollaio delle nostre azdôre e che un tempo scorazzavano liberi fra l’aia e il campo; hanno dato origine a una bella sfilza di modi di dire e parto da quelli in cui si parla del gallo, il re del pollaio. Du ghël int un pulér j è tróp era il detto con cui venivano evidenziati i problemi che sorgevano quando si era in due a voler comandare; u j pis d’ fê e’ gal era invece riferito a chi aveva l’abitudine di darsi delle arie o di fare il galante con le signore. A ca su u j fa l’öv ne˜ch e’ gal era l’espressione usata quando si commentava il benessere economico o la fortuna di qualcuno. Anche la gallina veniva tirata in ballo piuttosto spesso; nel detto la galèna ch’va par ca, s’la n’ha magnê la magnarà, c’era l’allusione al fatto che la donna impegnata nei lavori di casa, prima o dopo, avrebbe comunque trovato il modo di mangiare; a la galèna ingorda u j s-ciupê e’ gös corrisponde in italiano al chi troppo vuole nulla stringe. Se invece si sentiva dire che uno l’era andê a badê al galèn de prit significava che l’avevano portato al camposanto. Un tempo infatti nel cimitero di molte parrocchie di campagna, quasi sempre molto vicino alla chiesa, le galline del parroco razzolavano tranquillamente fra una tomba e l’altra. Di una persona che non fosse capace di mantenere un segreto si usava dire “l’ha magnê de cul d’galèna: u l’impera la sera e u l’dis la matèna”; fê galèna bagneda era invece il rimanersene mogi mogi dopo essere stati ripresi per un qualche motivo. La passione per il bere e le frequenti ubriacature facevano dire che uno l’era imbariêgh coma una cioza; le nostre azdôre infatti, per costringere una gallina a fare la chioccia, la ingozzavano con pane inzuppato nel vino, poi imbambolata com’era le mettevano sotto le uova e lei cominciava a covare.

Un terreno fertile e molto produttivo veniva definito un cul d’gapõ, rigonfio e pieno di grasso, che una volta era molto apprezzato; lo stesso apprezzamento per la carne tenera e grassa dei capponi lo troviamo pure in óman e gapõ i n’ha stasõ (cioè sono sempre buoni) e nel detto e’ ve˜ bo, i sburõ e i gapõ i dura pöch. Quando un bambino tentava di intervenire nei discorsi dei grandi veniva zittito con un «te t’pu scórar sôl cvând che pessa i tachì o al galèn», cioè mai. Per chi aveva qualche difficoltà di comprensione entravano in ballo anche le oche e il ciù: l’ha magnê dl’öca… l’è coma l’öca ‘d Tavëla ch’l’era int e’ fiõ e la s’andeva a ca par bê; u j ha ‘d avê dê un bëch e’ ciù… par la Pascvèta e’ scorr e’ ciù e la zveta. La proverbiale furbizia del gatto, sempre presente nelle nostre case, ricorreva in vari detti riferiti a persone scaltre: l’è ‘d gata vêcia… i fiul di ghët i ciàpa i sorgh… al contrario, di uno impacciato e poco preciso nel suo lavoro, si usava dire «a cvèl ch’a lè a ni dareb ‘na gata da sprignê» oppure (in campo medico) l’è un cagnàz bõ sõl par mursê. Per questione di spazio rimando i modi di dire riferiti ad altri animali a una prossima occasione.

Gli spettacoli della Berton

P.S. Vi ricordo che durante questo fine settimana (sabato 21ottobre alle 21 e domenica 22 alle 15.30) nel Teatro dei Filodrammatici L.A. Mazzoni la compagnia del Borgo Giovani presenterà Le dame del ritmo. I biglietti li potete prenotare telefonando al 377 3626110, su Whatsapp attivo tutti i giorni, oppure acquistare direttamente nelle serate di spettacolo.