Buon pomeriggio! Ricordo il primo incontro con don Silvano, come se accadesse ora… Era una calda mattina di fine agosto del 1971, avevo poco più di 16 anni. In vacanza da scuola, come al solito stavo andando all’oratorio a vedere chi c’era a far arrabbiare la signora Angelina, la tuttofare del ricreatorio, l’unica presenza certa e quotidiana dopo la diaspora che aveva disperso la cosiddetta “meglio gioventù” della Parrocchia di quegli anni difficili: anni del post Concilio, anni di contestazione, anni di presunzione anche. Spesso, c’erano soltanto i “quattro amici al bar”, come in quella nota canzone: Gigi, Giovanni, Giancarlo ed io. Quella mattina, però, non c’era nessuno. Così, dopo aver salutato la signora Angelina, uscii e mi trovai davanti alla porta un prete. Alto, austero e insieme paterno, col sorriso aperto, umile e sicuro, mi venne incontro: “Sono don Silvano, il nuovo cappellano” e mi chiese di accompagnarlo in ferramenta ad acquistare non so che cosa… Era invece il vicario coadiutore con diritto di successione di mons. Giovanni Pezzi, il vecchio e fedele arciprete che cinque anni dopo, nel novembre del ’76, con grande fede e dignità offrì il suo “male cattivo” al Signore per don Silvano e la sua comunità, affidandogli la cura della Parrocchia di Sant’Apollinare, primo evangelizzatore di quella terra schietta, ribelle e un po’ testarda che è la Romagna.

La sua casa, la canonica aperta a tutti

Imparai a seguire don Silvano fin da allora, nella fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, che traspariva da ogni sua azione. Educatore tra i ragazzi, a scuola, all’oratorio, agli incontri del catechismo – sotto la sua spinta ripresero nuovo vigore – e nei campi estivi in montagna, proposti fin dall’inizio del suo apostolato, don Silvano si era rivelato anche un grande comunicatore. Con lui il confessionale tornò ad essere ciò che deve essere: un luogo di riconciliazione, di perdono, di ascolto, di dialogo. Così pure diventò la sua casa, la canonica, sempre aperta a tutti per una parola di consolazione o per una richiesta di aiuto. La stessa cosa si può dire per “Lo Zaino”, l’attuale bollettino parrocchiale, che inventò lui scarpinando tra monti e prati alpini, proprio per incontrare tutti, per annunciare a tutti che Cristo è “via, verità e vita”. Con la sua presenza e il suo entusiasmo, don Silvano rimise in movimento l’intera comunità, mostrando una particolare predilezione verso la famiglia, “chiesa domestica” e prima cellula naturale di ogni società che è e voglia restare umana. Sorsero i gruppi famiglie, vennero avviati i corsi per fidanzati, nacquero i centri di ascolto: ben 73 in tutta la Parrocchia, dopo le missioni cittadine da lui volute nel 1981! Ci furono anche battaglie da combattere, sul divorzio e sull’aborto. Non furono battaglie strettamente politiche, giustamente lasciate ai partiti e agli uomini politici – alcuni, ahimè, così sprovveduti da non accorgersi che l’Italia stava cambiando –, ma culturali.

Un impegno a tutto campo

Don Silvano aveva capito prima di molti altri, che dietro quei referendum c’era un disegno di gran lunga più pericoloso: la distruzione del tessuto unitario del nostro popolo, quel punto di riferimento sicuro che era ed è ancora oggi, seppur sia meno diffuso, il Cristianesimo, la persona di Cristo in primo luogo e la sua Chiesa. Il gruppo di giovani fiorito intorno a lui ed affidato anche alle cure di mons. Gian Domenico Gordini, lavorò molto in quegli anni di grandi tensioni e lacerazioni, si interrogò in profondità sul senso e sul significato dell’amicizia, dell’amore, del matrimonio, della sessualità, della procreazione, ma soprattutto visse un’importante esperienza di condivisione, dalla quale maturò la consapevolezza del grande dono della vita, da accogliere sempre con responsabilità a partire dalla famiglia, il luogo più vero ed autentico dove realizzare la propria umanità e rinnovare la società. Anche l’ospedale e l’ospizio, in quegli anni ad esso collegato, erano luoghi privilegiati per don Silvano, il quale fece riaprire e rinnovare la cappella interna per celebrare la Messa domenicale, oltre a non mancare mai ogni sera, con qualsiasi tempo, di visitare ammalati ed anziani, condividendo con la presenza e la preghiera la loro sofferenza, la sofferenza di Cristo. Come si può facilmente intuire da queste povere parole, l’impegno di don Silvano a Russi è stato a tutto campo, con le persone, ma anche con le… strutture. Tra le altre cose, ha fatto rifare il tetto, la tinteggiatura e l’impianto elettrico della chiesa Arcipretale, ha ristrutturato e rimesso a norma il cineteatro Jolly, oggi purtroppo chiuso in base alle nuove normative, ma che si spera possa riaprire, a Dio piacendo; ha ridato altresì dignità all’attuale omonimo circolo Jolly, già bar Acli, e fatto acquistare dalla Parrocchia quella Casa Rambelli – la “casa rossa” –, adiacente alla chiesa dei Servi, oggi sede delle opere parrocchiali.

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Tanti ricordi legati a monsignor Montevecchi

Se sono tanti i ricordi, anche personali, di don Silvano che tornano alla memoria, tra cui il matrimonio da lui celebrato tra me e mia moglie Emanuela – il primo dei suoi giovani –, uno solo è il filo che li lega: seguire Cristo. A Russi, molti hanno imparato dal futuro vescovo di Ascoli a seguire Cristo e l’appartenenza a Lui; altri hanno scoperto la fedeltà alla preghiera e ai sacramenti, altri ancora hanno applicato alla loro vita il criterio di “prendere le decisioni a freddo”, ossia senza gli effetti della rabbia, del dolore, o dell’entusiasmo, imparando ad osservare, ascoltare, riflettere. Don Silvano ha continuato a seguire Cristo anche dopo l’83, anno in cui il vescovo diocesano mons. Francesco Tarcisio Bertozzi lo chiamò da Russi a Faenza quale suo vicario, diventando poi parroco del Duomo, amministratore apostolico di Faenza-Modigliana, poi appunto vescovo di Ascoli Piceno, fino a quando il Signore non lo ha richiamato a sé. È stata questa la sua vocazione: seguire e servire Cristo nei fratelli, è stato questo il dono che gli ha fatto il Signore per la sua Chiesa, che, oggi più che mai, ha bisogno di pastori, di testimoni veri. Come lui. Con mia moglie, dopo la sua ordinazione episcopale avvenuta il 4 ottobre 1997 e il successivo ingresso ad Ascoli, venivamo a trovarlo ogni anno, così come venimmo per l’ultima volta il 16 giugno 2012, insieme ad altri parrocchiani, in occasione dei suoi 50 anni di sacerdozio e 15 di ordinazione episcopale: un giorno importante, anche perché ricevette dalle mani dell’allora sindaco della città Guido Castelli la cittadinanza onoraria.

La malattia

Non è stata quella l’ultima volta che ho incontrato don Silvano. Il 12 aprile 2013 mio fratello Paolino – mons. Paolo Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio a Mosca – era stato invitato da mons. Giancarlo Vecerrica, allora vescovo di Fabriano-Matelica, ad un incontro per commentare nella cattedrale di S. Venanzio un verso del Credo. Accompagnandolo, mi chiese di interessarmi per andare a trovare don Silvano, ricoverato da un paio di settimane all’ospedale di Ascoli. Contattai don Lino, segretario di don Silvano, e don Giampiero, direttore del quindicinale diocesano, i quali si mossero subito, parlarono col primario e il giorno seguente, bardati come durante la recente pandemia, per farmi capire, entrammo nella stanza dove don Silvano era ricoverato; i medici ci avevano detto di stare lì pochi minuti, anche perché la malattia che lo aveva colpito nei giorni di Pasqua non lo faceva parlare – gli avevano praticato anche la tracheotomia per respirare – e sembrava incapace di capire e rispondere. Quando Paolino entrò, lo salutò nel nostro dialetto: “A s’era avnù què par fem dè ‘na bandiziòn da te e invezi e toca a me detla” (ero venuto qui per ricevere la benedizione da te e invece tocca a me dartela). Don Silvano capì subito e rispose a don Paolo con una risata strozzata, ma allegra e le lacrime che gli rigavano le guance. Ci commuovemmo tutti, pregammo insieme, don Silvano nel suo cuore e nella sua mente, poi uscimmo, ancora pieni di commozione e gratitudine per quell’incontro. Ricoverarono poi don Silvano dalle nostre parti, in Romagna, a Montecatone di Imola, in un ospedale di riabilitazione specializzato per le persone colpite da gravi malattie. Lì lo andai a trovare un paio di volte, sedendomi al suo fianco e raccontandogli di me, delle mie giornate, della mia famiglia, come si fa con un padre, un amico, col mio parroco. Tornò alla Casa del Padre il 27 settembre 2013, il giorno in cui la Chiesa venera San Vincenzo de’ Paoli. Due anni dopo, nel 2015, proprio il 4 ottobre, giorno della sua ordinazione episcopale, l’allora sindaco di Russi Sergio Retini, durante un’apposita cerimonia nel teatro comunale, consegnò a Vera e Eugenio, fratelli di don Silvano, l’attestato di cittadino onorario della città, approvato all’unanimità dal Consiglio comunale.

Grazie, don Silvano per il dono che sei stato e dalla pienezza del Paradiso dove ora vivi continua a vegliare su di noi. Grazie.

                                                                                                                                  Elio Pezzi