Spendere l’esistenza per uno scopo, o per meglio dire, “per un compito” – quello di testimoniare Gesù Cristo, quale via, verità e vita possibile ed incontrabile anche nel nostro tempo –, è stata, per quel poco che ho vissuto con lui e capito di lui, e come lui stesso affermava, la missione fondamentale di monsignor Gian Domenico Gordini, uomo, sacerdote, educatore, giornalista, scrittore vero. Egli, infatti, se ha onorato la comunità in cui è vissuto, va indicato quale esempio di vita per tutti, soprattutto ai giovani di oggi, spesso incapaci di comunicare, perché senza memoria, i quali corrono dietro ai “tanti pifferai magici di questo tragico tempo”, falsi maestri del nichilismo, idolatrandoli, facendosi, spesso inconsapevolmente, violentare nei loro sogni, diventati utopie, illusioni, che riempiono il presente di un “fare quello che mi pare”, del nulla, ma anche di violenza e di morte, che li allontanano inesorabilmente dalla realtà, da una esperienza di vita vera, dalla ricerca di un significato, mentre tutti, loro e noi, abbiamo bisogno, come ha ricordato di recente anche Papa Francesco, della necessità che siano “soffiate via le ceneri che soffocano la brace ardente delle domande fondamentali. Il primo passo è trovare il senso di tali domande che sono nascoste, sotterrate, forse quasi morenti, ma che esistono”. Mons. Gian Domenico Gordini, al contrario, è stato un maestro di vita per tante persone, in particolare per numerosi giovani di diverse generazioni, compresa la mia.

Il momento cruciale del mio rapporto con lui è avvenuto nel 1973 – avevo 18 anni –, un anno importante, perché continuavo a mettere in discussione la mia famiglia, le sue scelte educative, ovvero l’eredità culturale che essa mi stava trasmettendo; un anno importante, anche perché stavo mettendo a fuoco le mie domande e i miei desideri, e, nello stesso tempo, iniziavo a compiere esperienze mie, frutto di riflessioni, decisioni ed errori miei. In quel periodo ho avuto la fortuna, o per meglio dire, il dono, un dono del Signore, il quale mi ha fatto incontrare persone che mi hanno accompagnato, nonostante le ribellioni, le pulsioni, le inquietudini dell’età. E Gordon – così lo chiamavo (così lo chiamavano in tanti) –, Mons. Gordini, è stato uno di queste. Lo conoscevo fin da bambino, fin da quando, qualche domenica, accompagnavo i miei genitori alla Messa domenicale delle 10.30 ai Servi o delle 11.30 in Arcipretale. E ne avevo un certo timore, perché il suo sguardo era severo, se non burbero, o almeno a me appariva così allora, mentre le sue omelie, spesso dai toni accesi e non senza buridoni, erano oggetto di costanti discussioni fra mio padre e mia madre. E mi dava fastidio che quell’uomo continuasse a essere presente in casa mia…

Fu Don Silvano, Mons. Montevecchi, poi Vescovo di Ascoli Piceno, allora semplice coadiutore parrocchiale dell’allora arciprete, Mons. Giovanni Pezzi, che mi fece cambiare idea su Mons. Gordini; non a parole, ma attraverso il “Gruppo Giovani” della Parrocchia di Sant’Apollinare in Russi che aveva costituito e che frequentavo – era composto da una trentina di studenti universitari, del 4° e 5° anno delle superiori e da giovani lavoratori – e che Don Silvano affidò appunto a Don Gordini col compito di guidarne il cammino di fede e formazione. Ci incontravamo con Don Gordini il venerdì sera, per leggere la Parola di Dio e riflettere su di essa, per confrontarci su temi personali, parrocchiali e di attualità, per pregare ed organizzare attività, iniziative e progetti. Inoltre, due-tre volte l’anno, sempre sotto la sua guida, il nostro gruppo partecipava a ritiri spirituali di una, o più giornate: erano momenti forti, importanti, in cui Gordon spezzava il pane del Vangelo, sempre ancorandolo al fatto storico, alla persona storica di Cristo, al Magistero della Chiesa, alla presenza reale di Dio. Egli accoglieva inoltre, in piena e reciproca libertà, le confidenze (e le confessioni) di noi giovani (ragazze comprese, perché era noto che lui confessava soltanto uomini –  ricordate? –, nel bugigattolo prima della sacrestia dell’Arcipretale), sempre pronto a richiamarci quando lo riteneva necessario, come fa o dovrebbe fare ogni buon padre verso i figli che ama.

Condivideva, in questo caso da fratello maggiore, anche i momenti di gioco e svago. Ricordo volentieri la sua mano pesante a “palla avvelenata”, la risata contagiosa, il gusto per la battuta, non di rado velata di sottile ironia, anche nei confronti di un certo clericalismo, ecclesiale o “laico” che fosse, la condivisione dei “piaceri” della tavola, le discussioni sul calcio – era un fine intenditore, tifoso del Bologna e del Russi, amico personale di Marino Perani e di altri calciatori del “mitico” Bologna di Fulvio Bernardini – e l’amore per la lettura.

Ha insegnato – mi ha insegnato – che i problemi non si sfuggono, ma si affrontano – sempre –, possibilmente con serietà, sincerità ed umiltà. Ha insegnato ad avere grande disponibilità a dialogare, perdonare, incoraggiare, ricominciare da capo dopo ogni errore. Ha insegnato, ancora, ad accettare le responsabilità con fiducia, speranza e spirito di carità, senza spaventarsi per le fatiche; responsabilità integrate, nel mio caso, con quelle ricevute in casa, da Don Silvano, poi da mio fratello Paolino, da altri adulti – la mia maestra, religiose e religiosi, professori… –, compresi, ad esempio, i dirigenti e i colleghi di Confcooperative Emilia Romagna e delle Bcc, le cosiddette “coop bianche”, dove ho lavorato, e di Enrico De Giovanni, per me un secondo padre, quando ho collaborato con lui durante il suo mandato di sindaco di Faenza, e degli amici di Cl, incontrati dopo, più di trentasette anni fa.

Ma c’è un altro aspetto educativo – emerso anch’esso dal mio rapporto con Mons. Gordini – che è altrettanto importante e riguardava il mio lavoro, di cui ci ha già detto molto l’amico Giulio: il giornalista, un mestiere dalle diverse sfaccettature. Era sempre il 1973, quando Guido Scudellari, un amico di gioventù di mio padre, scomparso anch’egli da molti anni, mi accompagnò da Don Gordini, da un anno direttore del “Piccolo”, il settimanale della nostra Diocesi. Gordon stava infatti cercando nuovi collaboratori per il giornale ed io, che avevo iniziato a scrivere qualcosa per “Lo Zaino”, il giornalino che Don Silvano aveva inventato durante i campi estivi in montagna per i ragazzi della Parrocchia, poi per il “Carlino”, fui subito accalappiato. Da allora non ho più smesso quel “brutto vizio” di scrivere. Come lui stesso, del resto, a cui bene si attagliava quello che disse una volta Don Giuseppe Dossetti ad un noto cronista, il quale, per intervistarlo, si era presentato con un: “Sono un giornalista e un peccatore”. A quelle parole Don Dossetti rispose: “Il secondo – attributo, naturalmente – non è grave”. Lo so, forse, è più grave la prima condizione, ma sono grato a Don Gordini di avermela fatta scoprire, di avermi fatto scrivere sul “Piccolo”, che è stato una grande palestra di giornalismo e di comunicazione sociale, prima ancora di diventare un lavoro in altre redazioni, un modo di esprimermi con libertà e passione, ma anche un servizio alla comunità. Don Gian Domenico non mancava mai di richiamare i collaboratori del “Piccolo” ed i giornalisti in generale, alla “grande responsabilità, insieme personale e sociale, dell’uso delle parole, perché attraverso la scrittura il giornalista mette in gioco se stesso, il suo rapporto con i lettori, la verità della notizia e la testimonianza alla Verità, a Cristo, l’appartenenza a Lui e alla sua Chiesa”. Tale testimonianza, in una società sempre più vuota di valori e di sicuri punti di riferimento, spesso indifferente, distratta, “sazia e disperata”, non vale soltanto per un settimanale cattolico, quanto per una redazione “laica”, o un’impresa editoriale a cui interessano soltanto le vendite, oppure l’ufficio stampa di un ente pubblico, o di una organizzazione economico-sociale. “È nel mondo che deve farsi sentire la voce responsabile di giornalisti ed operatori, cattolici o meno non importa, della comunicazione”.

In secondo luogo, per Don Gordini il lavoro giornalistico non doveva escludere nessun tipo di argomento. Per edificare la comunità, la Chiesa e rendere sempre nuovo l’annuncio del Vangelo, erano indispensabili la voce del Magistero, l’informazione religiosa, gli orientamenti e le riflessioni su temi ed inquietudini che stanno a cuore alle persone, così come servono  l’informazione politica, sociale, culturale, la cronaca locale, lo sport…

Chi opera nel mondo giornalistico, e non soltanto chi ha operato con Mons. Gordini, non ha avuto e non ha soltanto rapporti “rose e fiori”. Ci sono state – ed io ne sono testimone – anche tensioni, errori, sofferenze reciproche – del resto, chi non sbaglia, chi non è senza peccato? – e discussioni. Una, decisamente importante, proprio sul significato della comunicazione, mi pare utile richiamarla, perché mi sembra di grande attualità. Ciò che connota la personalità di ciascuno, ciò che rende viva e calorosa l’espressione e la comunicazione, trae le sue origini dal passato, da ciò che ciascuno ricorda del proprio passato. Fin qui, pressoché tutti erano d’accordo con Don Gordini. Le divisioni nascevano invece intorno all’origine, ovvero da dove sorgono il dialogo e la comunicazione. Lui diceva “dalla conoscenza, dallo studio e dalle relazioni interpersonali”; altri, me compreso, aggiungevano a tali elementi, l’esperienza, la cui profondità e la capacità di memoria, che naturalmente anche lui condivideva.

Più sono carico di esperienze, concordavamo, più sono capace di parlare con altri. E più comunico con altri, più riesco a connettere ciò che ho dentro di me con la posizione, profonda, o superficiale, ricca, o arida che sia, del lettore-ascoltatore-internauta. La comunicazione umana ha infatti le sue radici in una esperienza, nell’impegno nella vita attraverso un’esperienza vera per sé, con un giudizio sulla realtà. Se la mia esperienza è il disimpegno nella vita, che cosa posso comunicare? Poco, o nulla: bene che vada, chiacchiere e pettegolezzi. Ecco, perché l’esperienza va custodita nella memoria, nella memoria di ciascuno, protetta, come fa ogni buona madre col proprio figlio, altrimenti non può nascere il dialogo con gli altri, non può crescere e farlo crescere a mano a mano che il tempo passa.

L’enorme solitudine odierna nasce non dal fatto che si è soli, ma perché manca un significato al vivere; di conseguenza, ricordava Don Gordini, l’incomunicabilità aumenta. L’attrattiva del vivere, ciò che gli dà consistenza, non nasce soltanto da una conoscenza, da uno studio dell’oggi, ma dal passato, appunto dalla memoria: “che errore è stato” – lo diceva senza intenti polemici, quale esempio negativo eclatante – “la riforma dell’insegnamento della storia ridotta al solo ‘900!”. L’attrattiva del presente, la sua consistenza, non sta dunque nell’effimero, nell’utopia, nell’evasione, nell’attualità che tutto brucia e consuma, e nel rumore assordante che tutto avvolge – “Flegias, Flegias, tu gridi a voto”, scrive Dante nell’Inferno –, ma nella ricchezza, di cui è piena l’eredità del passato e sulla quale possiamo costruire, anzi su cui poggia il futuro.

Lo scienziato, filosofo e teologo francese Pierre Teilhard de Chardin, autore molto amato da Mons. Gordini, scriveva: “Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità oggi non è una catastrofe che venga dal di fuori, una catastrofe stellare, non è né la fame, né la peste; è invece quella malattia spirituale, la più terribile, perché il più direttamente umano tra i flagelli, che è la perdita del gusto di vivere”. Come tragicamente confermano gli avvenimenti che sono sotto gli occhi di tutti, a partire dalla recente alluvione, o dalla guerra tra Russia e Ucraina e dalle altre 169 dimenticate, tra nazioni e tra regioni di una stessa nazione, come ricorda spesso Papa Francesco.

Per ciò che è stato ed ha rappresentato, l’unica cosa che mi sento di aggiungere, per concludere questo breve “ricordo” di Don Gian Domenico, è un semplice ringraziamento per avere insegnato, anche a me, anzi di più, per aver testimoniato, il gusto di vivere, che trova le sue radici nella Verità che rende liberi, per la quale egli ha speso le sue migliori energie, affinché chiunque la potesse incontrare e ne scoprisse il senso e il metodo. Agostino di Ippona, un santo molto amato da Don Gordini, diceva: “Intellectus cogitabundus initium omnis bonis”, un intelletto, un’intelligenza che pensi, che si applichi, che si impegni, è l’inizio di ogni bene. Che sia davvero così per ciascuno, per il tempo che ci è dato da vivere. Grazie.

                                                                                                            Elio Pezzi