«In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati». Così recita il Giuramento di Ippocrate. La cura del prossimo è il primo compito del medico, dice colui che fondò la professione nel IV secolo a.C. in Grecia. Eppure oggi spesso la relazione tra chi cura e chi è curato è messa a dura prova da una società che ragiona sempre più in un’ottica di produzione e consumo, riducendo lo spazio delle relazioni interpersonali. Il medico però, come tutte le figure che si occupano dell’altro, deve stare attento a non entrare troppo in questa logica e conservare quell’umanità che lo contraddistingue e che è alla base di questa professione. Ne abbiamo parlato con il dottor Angelo Gambi, oncologo per molti anni all’ospedale di Faenza.

“Tra burocrazia e tempi da rispettare, si sta perdendo l’ascolto dell’altro”

Dottore, cosa lega il medico al paziente? Con quali occhi deve guardare il malato che ha di fronte?

Il medico ha una base etica, laica, che si riconduce al Giuramento di Ippocrate: sia nella versione antica che in quella moderna del testo, c’è sempre un’attenzione al fatto che la missione del medico sia quella di alleviare la sofferenza dell’altro per non provocare la morte. Oggi c’è meno spazio per questo e so che il Giuramento non viene neanche più recitato durante la proclamazione di Laurea. Le tante leggi su fine vita, suicidio assistito, aborto giustificano in qualche modo a volte il sopprimere la vita, atto che non sarebbe nella natura del medico. Dal punto di vista cristiano il malato è un fratello sofferente per cui svolgere un’azione di accompagnamento e di sostegno, pur mantenendo quel distacco necessario perché il medico non si metta in crisi. Questo ascolto dell’altro si sta un po’ perdendo nella nostra sanità. Tutto è diventato finalizzato alla produzione di servizi in tempi sempre più ristretti, con un occhio attento al risparmio, che diventa un valore primario. In questo sistema non c’è più il tempo di ascoltare il paziente e accompagnarlo. Ognuno di noi ha fatto esperienza della malattia e sa che il paziente ha bisogno che il medico sia tutto per lui. Se però il medico deve stare nascosto dietro lo schermo di un computer per stare nei tempi stabiliti, tutto questo diventa impossibile. Ed è un vero peccato. Il tempo passato con il paziente è un tempo di cura; perché il medico non deve produrre dei manufatti, ma dei provvedimenti atti a recuperare la salute. Non ti viene più chiesto di essere un buon medico, ma di stare ai tempi. Il problema è complesso e ci si trova a fare i conti con una pressione sociale che mette in difficoltà la sanità.

Che cosa consiglierebbe a un giovane che vuole studiare medicina?

Il medico è una figura che si può impegnare in tanti settori e in tanti posti, ma in qualsiasi attività che lo porti a guardare in faccia l’altro, deve ricordarsi di avere davanti sempre e solo il bene dell’altra persona e cioè la guarigione o una forma di sostegno per attraversare nel modo meno doloroso possibile la malattia, quando non è possibile superarla: dovrà ricordare che tutti hanno diritto a essere curati, ma non tutti potranno essere guariti. Io consiglio allora ai giovani che studiano medicina di fare anche esperienze di volontariato, ad esempio assistendo la popolazione anziana che come tale si ammala più facilmente, per capire a fondo l’importanza del rapporto interpersonale. Infine dico loro che il medico deve avere mettere sempre un po’ di cuore in quello che fa. Si può essere formalmente corretti, ma senza cuore non si è medici. Il sorriso, la pacca sulla spalla, l’incoraggiamento, gesti proprio dei medici di famiglia di una volta, rendono il dottore non solo colui che risolve un problema, ma colui che sa accogliere le domande dell’altro, rispondere e incoraggiare.

Letizia Di Deco