I ragazzi e l’uso dello smartphone: solo un semplice strumento? Ne parliamo con il dottor Alberto Pellai, medico psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore dell’Università di Milano. «In questo recente periodo, complice anche il Covid-19, – dice l’esperto – siamo andati sempre più incontro a una maggiore virtualizzazione, che in ambito educativo non è un principio benefico».
Intervista ad Alberto Pellai
Una virtualizzazione, dottor Pellai, con cui a oggi si viene in contatto sempre più in giovane età.
Faccio un esempio: se mia figlia, che ha solo 12 anni, venisse lasciata libera di affrontare l’esame della patente, e lo superasse, dovrebbe poter essere libera di guidare? Potremmo porci questo interrogativo come parallelismo con l’uso dello smartphone, che negli ultimi 10-15 anni stiamo affidando a bambini sempre più piccoli concedendogli strumenti sempre più potenti, in un’età, quella preadolescenziale, in cui si ha voglia di piacere, divertimento, gratificazione, il nuovo e l’ignoto sono elementi estremamente ingaggianti, agiscono sul nostro sistema limbico come una calamita. E si fatica a dosare l’intensità del rischio e il senso del limite, motivi per il quale il fenomeno delle challenge estreme è un fatto sempre più di attualità: gesti di alta pericolosità e stupidità, di cui a volte capita di sentire i tragici esiti tra i fatti di cronaca.
È proprio in questa età che i nostri figli tramite lo smartphone entrano nel web: un mondo privo di un progetto educativo, all’interno del quale possiamo trovare tutto, che ci propone, tramite un algoritmo, materiale che potrebbe interessarci, apposta per noi, riempiendoci di stimoli gratificanti al di fuori del progetto educativo. Proprio per questo lo smartphone per definizione non lo considererei come un semplice strumento, ma un vero e proprio ambiente che ti invita a spendere tempo all’interno di ciò che ti propone.
Gli smartphone diventano più un modo per intrattenersi?
Possiamo dire che prima un bambino riceve il telefono prima crea un ambiente in cui controllare noia e frustrazione, contando anche quanto sia accattivante la tecnica d’approccio che fornisce il touch. Qualche tempo fa, mentre mi trovavo a messa, ho avuto modo di osservare tre bambini tra i 2-3 anni, naturalmente tutti annoiati. Il primo, dopo insistenti richieste ai genitori, ottenuto lo smartphone, si era messo a visionare un video senza sonoro di una macchinina che compiva il giro di una pista, per un’intera ora di fila; la seconda bambina, visto il coetaneo in possesso del telefono lo aveva reclamato a sua volta e ottenuto. Anche lei guardava un video senza audio di un cartone animato. Solo l’ultimo bambino era senza smartphone e il suo ‘passatempo’ era guardarsi intorno, ingaggiando con lo sguardo altre persone e scambiandosi sorrisi, e creando anche un rapporto più a contatto con i genitori che lo prendevano in braccio affinché stesse più tranquillo. I primi due invece erano più in uno stato dissociativo, di trance, isolati da ciò che avevano intorno. Tra i tre bambini, quello che stava sviluppando più reti neuronali era proprio il terzo, che, avendo bisogno della relazione con i genitori e i vicini per passare il tempo, imparava come gli altri siano una risorsa importante per affrontare la noia e quando da soli non ce la si fa.
Una società questa di oggi che è cambiata parecchio rispetto a quella delle scorse generazioni.
Se 10-15 anni fa il problema più comune per il quale i genitori chiedevano aiuto era che i loro figli andavano male a scuola ed erano sempre in giro senza dire a far cosa e con chi, ora invece ci si preoccupa perché sono sempre chiusi in casa senza dire cosa stiano facendo e con chi. Una delle occasioni in cui lo smartphone viene regalato per l’uso personale è la prima comunione: in 10-12 anni abbiamo anticipato di 6 anni la consegna del dispositivo. Con conseguenze che impattano sul rendimento scolastico: prima si riceve lo smartphone minore è tendenzialmente la media dei voti nelle scuole medie e superiori. I 18enni di oggi sanno meno parole, sono confrontabili ai 15-16enni di due decenni indietro. Meno parole significa meno modi per raccontare ed esprimere le proprie emozioni: ed è anche questo a volte a portare ad azioni di autolesionismo. Il rischio è che la profondità di pensiero venga notevolmente deteriorata.
Bisognerebbe stare più attenti nel concedere ai figli questi dispositivi.
Gli stessi manager delle grandi multinazionali della Silicon Valley vietano l’utilizzo dello smartphone ai propri figli fino a 14 anni, non ne consentono l’uso nelle scuole, e quando assumono una babysitter bisogna che ella dichiari che non avrà il telefono nemmeno in mano per tutto il tempo che passerà coi bambini. Chi inventa le tecnologie e le conosce sa bene i rischi che comportano, e ne prevengono l’uso in tenera età affinché il cervello possa ‘modellarsi’ attorno alla forma migliore e che si possa riempire il proprio zaino di competenze per la vita. Meglio farsi male andando in bicicletta che rimanere a casa davanti a uno schermo: è nel ritmo più lento della vita reale che si acquisiscono gli apprendimenti che davvero valgono per la vita.
Andrea Pasini – “Il Ponte”