Una serie vista di recente su Netflix mi ha fatto ritornare agli anni della mia gioventù. “La regina degli scacchi” esplora la vita di una bambina prodigio, orfana, di nome Beth Harmon, seguendo le sue vicissitudini dall’età di otto ai ventidue anni, mentre lotta contro la dipendenza da alcol e psicofarmaci, nel tentativo di diventare grande maestro di scacchi. Ovviamente non si può generalizzare, ma i giocatori di scacchi di solito sono persone con un altissimo coefficiente intellettivo, ma spesso piene di fobie e di paure, come capita sovente per i geni.

In questi giorni, in cui ricorrono cinquanta anni dalla mia partenza per il servizio militare, mi è tornata alla mente la sfida per il campionato del mondo di scacchi, disputata proprio in quel periodo e della quale i media ci raccontavano le partite giorno per giorno, tra il detentore del titolo Boris Spasskij, sovietico (oggi diremmo russo), e lo sfidante americano Bobby Fischer: è passata alla storia con l’appellativo di “Sfida del secolo”.

Giocata a Reykjavík, capitale dell’Islanda, tra l’11 luglio e il 3 settembre 1972 la sfida è considerata la più famosa della storia delle competizioni ufficiali di scacchi. La gara fu la massima espressione sportiva del confronto geopolitico fra Est e Ovest – la Guerra fredda combattuta a colpi di scacchi – e attirò per questo l’attenzione della stampa mondiale. Robert James Fischer rimarrà comunque un mito ineguagliabile. Il giovane americano non aveva mai battuto Spasskij, ma il ciclo di sfide superate per arrivare al match di Reykjavík (diciannove vittorie consecutive: una striscia mai più ripetuta) avevano creato un’enorme attesa. Poi le incertezze dovute alle continue richieste di Fischer: sull’accoglienza a lui riservata in hotel, sulla borsa in palio, e poi sulla sede, la sala, le luci, le sedie… Finalmente il match ha inizio, e Fischer perde malamente la prima partita, con un errore banale.

Come se non bastasse, deluso e arrabbiato, Fischer dà forfait nella seconda partita e minaccia di tornarsene a New York. Pretende silenzio assoluto, chiede di giocare in una nuova sala e senza telecamere: sembra in cerca di pretesti per mollare tutto. I sovietici insistono con il loro campione perché non assecondi le continue richieste dello sfidante, ma Spasskij vuole giocare, ne fa un punto d’onore.

Il match riprende, e il vento cambia: Fischer vince la terza partita, poi la quinta, la sesta, l’ottava, la decima. Una valanga. Spasskij porta a casa qualche patta, vince un’altra volta soltanto, nell’undicesima del match, ma perde ancora la tredicesima e dopo una striscia di sette patte consecutive perde l’ultima, la ventunesima, che laurea il 3 settembre 1972 Robert James Fischer campione del mondo, per 12,5 a 8,5. Poi tutto finì. Le vittorie, il successo, la gloria. La parabola si era compiuta: arrivato in cima al mondo, Fischer smise di giocare, in puro stile genio e sregolatezza.

Chi ricorda il giovane americano atterrare, cinquanta anni fa, con il trofeo tra le mani all’aeroporto Kennedy di New York, sorridente come una star di Hollywood acclamata da fotografi e reporter, in attesa di un invito alla Casa Bianca (che non arrivò, e lui si offese mortalmente, maturando il più viscerale degli odi verso l’America: umiliare lui, l’eroe yankee della sfida contro il colosso sovietico) non si rassegna facilmente all’idea che quel purissimo genio scacchistico non avrebbe più giocato e avrebbe anzi concluso i suoi amari giorni come un barbone squilibrato, perseguitato dai suoi demoni e in rotta col mondo intero, fino alla sua scomparsa, proprio a Reykjavík nel 2008.

Però ci fa bene guardare anche i gesti che rendono più umane le persone. Fischer è in carcere, a Tokyo: Boris Spasskij, l’avversario gentiluomo, prende carta e penna e scrive al presidente degli Stati Uniti d’America: “Signor presidente, non voglio difendere o giustificare Bobby Fischer, ma se lui è in carcere (ufficialmente per un passaporto irregolare nda), allora merito anche io la detenzione: mi arresti, mi metta in cella con Bobby Fischer. E ci faccia avere una scacchiera”.

Tiziano Conti