Si respira un’aria di neorealismo in queste note autobiografiche che Ilva Fiori ha tratto dai racconti della madre Sina dedicandole alla figlia Miriam. Come un passaggio di testimone, preceduto da un’intensa prefazione di Gian Ruggero Manzoni. È il mondo in bianco e nero del dopoguerra di San Severo, anzi Sàsfir, borgo isolato della Bassa Romagna in cui le strade sono bianche. Tutti, anche il mitico prete antifascista don Minghì, parlano dialetto che scorre nel racconto come un fiume carsico continuamente emergente sull’italiano, decisivo nel dare sostanza al racconto scritto in prima persona.

Una comunità di contadini e braccianti in cui tutte le famiglie hanno un soprannome e la solidarietà è d’obbligo per vincere la povertà, se non la miseria. Specialmente quando si tratta di ricostruire un paese che si è ritrovato sotto le bombe per mesi in prima linea a ridosso del fronte, il fiume Senio, che diventa famoso anche all’estero. «Il fascismo li aveva mandati a conquistare il mondo, in Africa, in Russia e ora quel mondo se lo ritrovavano in casa, spesso distrutta…» ha scritto il poeta dialettale Gino Nostri.

E così i nostri cuntadèn d’ Sàsfir, quasi mai arrivati al mare, sono stati invasi da soldati provenienti da ogni dove: tedeschi, inglesi, canadesi, polacchi, indiani, neozelandesi e, per la prima volta, hanno visto truppe di colore, i nigar. In sintesi, nel tritacarne della grande Storia.

Risorgere dalle macerie dei bombardamenti e creare un futuro per la famiglia è l’imperativo che si prefigge Sina (Teresina), la fiera madre che ha già un figlio partorito da sola quando il marito, sposato per procura, era in guerra. Tornato dalla prigionia in Libia, non è da meno di lei e, comunista com’è, fonda il collettivo braccianti nella cui casa Ilva nasce; qui trascorre l’infanzia seguendo i grandi ritmi stagionali come la mietitura del grano, la vendemmia e la macellazione del maiale, raccontate con un taglio quasi antropologico: a ogni stagione un capitolo.

Storia romagnola di emancipazione femminile

Un’educazione di campagna, tra i braccianti, ma non lontana dall’ombra del campanile: in estate si va in montagna nelle colonie del famoso don Stefano Casadio, conosciuto come il prete del popolo. La bambina è curiosa di conoscere il mondo e grazie alla brava maestra Italia, che la stimola a studiare prima all’avviamento (dove i libri usati erano gratuiti) e poi, caparbiamente, il grande salto a Faenza, in treno da Granarolo, presso le suore di Sant’Umiltà per le medie superiori e studiare le lingue, finestre su altri mondi.

Divisa tra la stampa della vulgata comunista che entra in casa ed i fotoromanzi, quando si riusciva con grandi sacrifici a comprarne, porta a pascolare la scrofa incinta, ma tiene in mano un libro Oscar Mondadori. Tramite un prete, ha corrispondenze con una ragazza americana dell’Oregon che ha il fratello combattente in Vietnam e chiede di pregare per lui. Sembra di sentire sullo sfondo Gianni Morandi che canta “C’era un ragazzo che come me, amava i Beatles e i Rolling Stones…”.

Il rapporto viene interrotto bruscamente quando Ilva dichiara di avere simpatie per il popolo vietnamita aggredito. Scrive anche a un ragazzo rumeno che esalta il modello comunista e definisce il suo Paese un paradiso… Si cercano punti di contatto tra l’ideologia comunista e il cattolicesimo in un’epoca di forti contrapposizioni politiche. Dal microcosmo di San Severo si osserva il resto del mondo: si è nel cuore della provincia, ma non si è provinciali.

Insomma cresce una ragazza attiva, sveglia, che scrive poesie e riesce a diventare sindacalista, protetta e incoraggiata dalla madre, la mitica Sina, una autentica pioniera dell’emancipazione femminile: ha avuto il coraggio di sposare solo per amore un uomo diseredato, un bsdalé, ossia un trovatello.

Per rendersene conto, basta guardare la foto di copertina del libro con lei sulla bicicletta nuova, in posa, con piglio regale: una così non si fa scegliere, sceglie! Mo a l’ò pagheda chèra…” ammette oggi, serena, a 99 anni ben portati. Concludendo, è uno spaccato di storia locale post bellica.

Angelo Ravaglia