Venerdì 18 giugno, pochi giorni prima di compiere 93 anni, Giampiero Boniperti se ne è andato. Quella di Boniperti in materia di calcio è stata una scuola, prima da calciatore che seppe cambiare di ruolo a metà della carriera – dapprima punta e poi rifinitore dietro Charles e Sivori – e successivamente da presidente della Juventus.

Un magistero, una lezione di accortezza e di intelligenza. Quel modo d’altri tempi di intendere il calcio (ma che, siamo onesti, ci manca così tanto!) si ruppe quando sulla scena del calcio italiano apparve un altro protagonista, il Silvio Berlusconi che capì per primo che l’arte di colpire la palla con i piedi sarebbe divenuto lo show il più redditizio dei canali televisivi e dunque che ci si potevano immettere quantità di soldi inaudite rispetto ai parametri precedenti, di cui Boniperti era un sacro custode, da quanto sapeva proporzionare la spesa al risultato.   Poi dalle potenzialità televisive del calcio si passò anche al campo della politica, visto che i “Milan Club” divennero uno dei pilastri su cui si costruì la struttura di Forza Italia nel 1993 o giù di lì.

Il passaggio del testimone avvenne a proposito di un calciatore che era uno dei migliori della sua generazione: Roberto Donadoni che giocava nell’Atalanta, sino a quel momento un vero e proprio feudo juventino. Boniperti aveva già fatto tutto: si era messo d’accordo con il padre, avevano concordato una cifra di tutto rispetto per i tempi, sette miliardi delle vecchie lire. Solo che Berlusconi quella cifra la portò in un attimo a dieci miliardi, così Donadoni divenne un elemento fondamentale di quella perfetta squadra di calcio che sarebbe stata forgiata da Arrigo Sacchi.

Boniperti era stato battuto sul suo terreno, quello di scovare per tempo i talenti migliori. Era così che aveva costruito una delle Juventus più forte di tutti i tempi, quella che vestiva quasi per intero la maglia della nazionale nel 1978 in Argentina e nel 1982 in Spagna. Per fare qualche nome: da Gentile a Cabrini, da Scirea a Causio, da Bettega a Tardelli.

Due sue frasi ne racchiudono l’anima di poeta e di dirigente sportivo. “La Juventus non è soltanto la squadra del mio cuore. È il mio cuore”. “Vincere non è importante: è la sola cosa che conta”.

Ha debuttato in serie A nel 1947: storie di gol e di prodezze, soprattutto di un sentimento unico, profondo e irripetibile. 444 presenze, una vita per quei tempi, in cui si giocavano metà partite rispetto ad oggi. L’addio al campo nel 1961, con cinque scudetti e due coppe Italia. In Nazionale 38 presenze e otto reti. Presidente della Juve dal 1971 al 1990, ancora una vicenda di vittorie, scudetti e coppe internazionali, con la profonda ferita, rimasta sempre aperta nel suo cuore, delle 39 vittime dell’Heysel nel 1985.

Insieme a Charles e Sivori, nei campi di calcio eterni ritroverà anche Paolo Rossi, uno dei suoi ragazzi, con cui ebbe grande affetto e qualche screzio, come capita sempre quando si è legati nel profondo del cuore.

Tiziano Conti