Aver scelto di esserci, come mamma. Chiara Bosi, 42 anni è mamma della casa-famiglia “Marta e Maria” di Faenza della comunità Papa Giovanni XXIII.

L’intervista a Chiara Bosi

Come hai conosciuto questa realtà?

La scelta della condivisione come modo di essere è nata nel 1990, dal primo incontro con don Oreste Benzi, il cui abbraccio mi è rimasto dentro sempre e non mi ha lasciato più tranquilla, e così ha condotto la mia vita in tutti i suoi passi. Fino al 1999, quando don Oreste mi ha invitato ad andare con lui a trovare le ragazze che si prostituivano in strada a Bologna. Alla fine della serata il don mi guarda e mi dice: «Vedi, Chiara, io sono di Rimini e non so quando potrò tornare da queste sorelle. Ma loro non possono andare perdute, o essere trascurate, quindi te le affido». E così, da allora, quelle ragazze sono diventate davvero sorelle amate fino a quando una di loro, Stella, una sera mi è salita in macchina e ha detto «portami via di qui perché voglio vivere anch’io». E così è cominciata l’esistenza della mia casa-famiglia, nel 2003. Ero giovane non mi mancava di sognare “la salvezza del mondo”, di costruire in prima persona quei “mondi vitali nuovi dove regna la giustizia di Dio”.

Da chi è composta la casa-famiglia oggi?

Io e mio marito condividiamo la vita con i nostri tre figli, due naturali, di 11 e 9 anni, e una adottiva, di 7 anni con disabilità dovuta al tentativo di aborto a cui è sopravvissuta e altri due ragazzi stranieri, una ragazza straniera e una ragazza con disabilità cognitiva, ma l’apertura è a 360 gradi.

Cosa significa essere casa-famiglia?

Nella casa-famiglia ci sono la figura materna e paterna. Queste due figure devono liberamente scegliere di essere uniche, gratuite. Il rapporto con i figli accolti deve essere personalizzato. Qui tutti possono essere accolti: si vive come in una normale famiglia, dove trovi i bambini, il nonno, chi studia, chi lavora, chi non fa niente perché non può, chi sta con la mamma. Così diventa un vero ambiente terapeutico: le persone acquistano senso di fiducia in se stesse, di sicurezza e sono aiutate a inserirsi in un qualsiasi ambiente.

Come state vivendo la pandemia?

L’essere casa-famiglia è stata una ricchezza perché essere in tanti significa non chiudersi in se stessi, ma aver sempre qualcuno con cui relazionarsi e di cui prendersi cura. Come mamma posso dire di aver visto vivere ai miei figli la problematicità della privazione di tutte le amicizie e delle loro attività. Una cosa preziosa è stata il veder garantita a mia figlia più piccola la frequenza scolastica.

La gioia più grande di essere mamma?

Il fatto di non dover essere speciale per essere amata, ma di essere amata perché scegli di esserci, come sei e come puoi perché proprio da questo essere amata nasce la gioia e la libertà di amare.

Samuele Marchi