Come nasce, si sviluppa e fiorisce una vocazione? Come accompagnare i giovani in questo percorso? Don Ottorino Rizzi è il padre spirituale di una decina di giovani che stanno seguendo il percorso di discernimento nella Propedeutica di Romagna che ha sede nel Seminario di Faenza. Con lui approfondiamo diversi temi su come matura ed evolve la vocazione.

L’intervista a Don Ottorino Rizzi

Essere prete e non avere una compagna di vita e una famiglia significa non amare?

La prima vocazione che ha l’uomo è quella di amare. Come l’albero è fatto per fare i frutti, l’uomo è fatto per amare. La declinazione in cui questo avviene può essere diversa.

Può avvenire all’interno del matrimonio o della vita consacrata, ma sempre di vocazione si tratta. Per questo l’amore è a fondamento di qualsiasi tipo di vocazione.

È importante per un prete sentirsi voluto bene o il solo fatto di credere non gli fa sentire questa necessità?

Anche le relazioni sono fondamentali per la vita di un prete. Riprendendo le parole di Thomas Merton: “L’amicizia con l’altro è epifania dell’amicizia con Dio”. Quando c’è un vero rapporto con Dio, si manifesta anche nell’amicizia con altre persone. I preti hanno poi la loro famiglia di appartenenza, il presbiterio. Ed è fonte di un legame concreto, pratico, e di amicizia.

Cosa vuol dire essere fedele nella vita di un prete?

Parto dalla prospettiva matrimoniale. La parola fedeltà non vuol dire semplicemente “non tradire il proprio ragazzo o ragazza”. È qualcosa di più profondo: siccome amo questa persona, faccio di tutto affinché l’altro si possa realizzare. La fedeltà del prete è mettersi ogni giorno a disposizione di Dio affinché Lui sia al centro della propria vita e di quella della comunità.

Cosa potrà invertire la tendenza per incrementare le presenze nei seminari?

La risposta è complessa. Posso offrire in questa sede solo alcuni spunti. Percepisco una difficoltà tra i giovani nel distinguere tra un’esperienza di fede autentica e un’attività sociale o di volontariato. Questo porta una persona a impegnarsi nel servizio, ma non nell’ideale e nel vero incontro con Dio. L’altra difficoltà è la dimensione relazionale: l’individualismo in cui viviamo ci porta a pensare all’altro come qualcuno che ci toglie qualcosa, mentre l’altro è la condizione attraverso cui mi realizzo.

Qual è la gioia più grande di essere prete?

Sono tante. Citerei per esempio il poter dire di sì a Gesù ed essere un uomo nuovo. Un’altra è la gioia di sentirsi sempre parte di una famiglia più grande, come padre di una comunità.

Come matura una vocazione? Come evolve nell’arco della vita?

La vocazione è dare credito a un’intuizione e a un desiderio che hai. Da piccolo incontrai un prete e mi colpì come si rapportava con la gente. Pensai: “mi piacerebbe essere come lui”. Ho dato credito a questa intuizione, all’inizio imperfetta, e ho visto che dietro a questa persona c’era l’esperienza di Cristo. Al liceo mi sono così concentrato su chi fosse Gesù e questo ha messo radice alla vocazione. Entrai in Seminario relativamente tardi per l’epoca, a 14 anni. Poi la maturazione avviene grazie ai rapporti: in seminario fai parte di grande comunità. Sperimenti la vita comune, vedi la diversità, ti confronti con guide spirituali. Ogni persona o situazione in cui ti imbatti è una provocazione al cambiamento.

Se un adolescente le dicesse “voglio fare il prete” quale sarebbe il primo pensiero?

Prenderei sul serio quello che mi sta dicendo. Non starei a giudicare, ma chiederei: “Come pensi di coltivare questo desiderio? C’è un modo per aiutarti?”. Il tutto sempre nella libertà.

Samuele Marchi