Misurare ciò che non si vede. Capire come si muove un fiume, come reagisce il terreno, cosa accade sotto la superficie del mare o dentro un bacino idrografico. È questo, in sintesi, il lavoro di Te.Ma. azienda faentina che da oltre quarant’anni opera nel campo della geologia applicata, delle indagini territoriali e dei rilievi avanzati, mettendo la tecnologia al servizio delle grandi opere e della sicurezza dei territori. A raccontarlo è Matteo Castelli, ingegnere, tra i punti di riferimento dell’azienda. Un professionista che, come molti faentini, ha vissuto in prima persona l’alluvione, trasformando quell’esperienza in una spinta ulteriore a interrogarsi su come migliorare la prevenzione.

Intervista a Matteo Castelli: dal Ponte sullo Stretto agli tsunami in Cina, i progetti in giro per il mondo

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Ingegnere Castelli, partiamo da Te.Ma.: che tipo di azienda è oggi?

Te.Ma. nasce all’inizio degli anni Ottanta da mio padre Gian Franco. Da allora ci occupiamo di indagini ingegneristiche per le grandi opere, in particolare di tutto ciò che riguarda ciò che non si vede: il sottosuolo, i fondali marini, il comportamento dei terreni, delle strutture. Oggi siamo una decine di persone, tra dipendenti e società collegate, con una sede a Faenza ma lavori in tutta Italia e all’estero.

Quali sono alcuni dei progetti più significativi a cui state lavorando?

Negli anni abbiamo operato su progetti molto diversi tra loro. Mia sorella Silvia si occupa a tempo pieno del Mose di Venezia, dove gestiamo e monitoriamo migliaia di sensori installati sulle 78 paratoie: lì la precisione richiesta è estrema, si parla di millimetri. Stiamo lavorando anche sul Ponte sullo Stretto di Messina, in una fase preliminare ma fondamentale: stiamo studiando le correnti marine, le onde, le interazioni meteo-marine per fornire ai progettisti un quadro conoscitivo su cui poi dimensionare fondazioni, materiali e strutture.

Non solo Italia, però.

Sì, una parte importante del nostro lavoro è all’estero. Abbiamo operato in Cina, per sistemi di monitoraggio degli tsunami: grazie a queste tecnologie è possibile avvisare la popolazione anche 20–30 minuti prima dell’arrivo di un’onda. Oppure ad Haiti, dopo il terremoto del 2010, quando il porto era stato distrutto. Lì abbiamo effettuato rilievi dei fondali per capire come ricostruire un’infrastruttura vitale per un Paese tra i più poveri al mondo.

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Attività di monitoraggio degli tsunami in Cina

Un altro progetto molto delicato riguarda i Campi Flegrei.

Sì, lavoriamo dal 2016 nei Campi Flegrei, una delle aree vulcaniche più complesse e densamente abitate d’Europa. Abbiamo realizzato moduli galleggianti e sensori sul fondale, progettati per resistere anni, in grado di misurare con grande precisione i movimenti legati alla camera magmatica. È un lavoro che incute rispetto, perché parliamo di un rischio reale e di attualità.

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Attività nell’area dei Campi Flegrei

L’alluvione in Romagna: un software per aiutare il monitoraggio degli eventi alluvionali

Veniamo a Faenza e all’alluvione. Come tecnico, che lettura ne dà?

Parto da un episodio preciso: febbraio 2025. La mattina viene comunicato che è tutto sotto controllo, poche ore dopo si evacua il Borgo, e infine non si verificano allagamenti. Questo significa che i modelli previsionali, almeno su Lamone e Marzeno, non sono sufficientemente affinati per il nostro territorio. Non lo dico per polemica: lo dico perché le previsioni non sempre trovano riscontro nella realtà, il che si traduce in difficoltà nella gestione dell’emergenza.

Cosa è cambiato dopo il 2023?

Dopo l’alluvione le aste fluviali non sono più le stesse. Le sezioni dei fiumi sono cambiate, gli alvei si sono modificati. Continuare a usare dati vecchi significa basarsi su un quadro conoscitivo non più reale.

Avete avanzato una proposta concreta.

Sì. Noi proponiamo un software all’avanguardia e intuitivo per la previsione e il monitoraggio degli eventi alluvionali, da affiancare a quelli già utilizzati dagli enti pubblici. I primi test sono stati positivi. Va aggiornata la topografia delle sezioni caratteristiche dei bacini e il modello idraulico locale partendo da quello di Arpa, ma migliorandolo in modo mirato. In più proponiamo di integrare i dati dei pluviometri con quelli dei radar meteo, che permettono una lettura più fine e tempestiva delle precipitazioni. Non per sostituire Arpa – che resta l’ente deputato – ma per affiancarla con uno strumento sperimentale, più specifico per il nostro territorio. Serve un adeguato periodo di ottimizzazione stimato in un anno per rendere il software operativo, che poi proporremo a Comune e Regione.

Faenza è un punto critico?

Sì, perché è il punto di passaggio tra collina e pianura. Qui il fiume cambia pendenza, velocità, comportamento. È uno dei tratti più delicati dell’intero bacino.

Lei ha effettuato anche rilievi sugli argini. Cosa è emerso?

Due giorni dopo l’evento di febbraio 2025 ho fatto rilievi con il drone sull’altezza degli argini del Lamone a Faenza. Abbiamo simulato una piena e visto che l’acqua fuoriesce prima in alcuni punti, dove gli argini sono anche 20 centimetri più bassi. Per esempio subito dopo il ponte della circonvallazione, in direzione di via Cimatti, o all’altezza dell’Ins.

Il Comitato Borgo parla di “democrazia idraulica”.

È un’espressione che condivido. Non è accettabile che una parte della città sia più esposta di un’altra per errori o disomogeneità progettuali. Serve uno screening completo di tutti i corsi d’acqua, perché il fiume va pensato come un’unica entità, dalla sorgente alla foce.

E sull’area di resistenza in via Cimatti?

Va detto che il Comune ha fatto un lavoro enorme, andando in deroga a molte procedure senza violare la legge. Però va chiarito che non è una vera vasca di espansione. Una vasca funziona se puoi regolare il flusso con paratoie e sfioratori. Qui l’acqua entra per superamento dell’argine: non la stai regimando, la stai subendo. È una soluzione utile per l’emergenza, ma non risolutiva.

“Nel nostro lavoro, un centimetro in più o in meno fa la differenza”

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Il nodo resta la burocrazia.

Sì, enorme. Le competenze sono frammentate tra Regione, Autorità di bacino, enti vari. La struttura commissariale ha ridotto qualcosa, ma non abbastanza. Siamo alla terza primavera dopo l’alluvione e, di fatto, si sono soprattutto riparati i danni, ma le grandi opere nuove sul territorio ancora non si vedono.

Questo ha un costo anche umano.

Altissimo. Non è solo quanto ci si bagna. È lo stress continuo, il vivere con l’allerta, il dover evacuare. È un costo emotivo che pesa sulla qualità della vita. E poi c’è il costo economico: le imprese non investono più se il territorio non è percepito come sicuro. Il rischio è l’impoverimento progressivo.

Lei però si dice ottimista.

Sì. Vedo attenzione da parte del Comune e della Regione, vedo competenze, vedo volontà. Vanno realizzate le casse di espansione a monte, anche se la loro capacità, per morfologia, non sarà grande come in pianura. Ma serve tempo, pazienza e soprattutto mettere davvero le competenze tecniche al servizio delle decisioni. Il cambiamento climatico c’è, dobbiamo conviverci. Ma possiamo farlo in modo meno impaurito e più razionale, se misuriamo bene il territorio, e non perdiamo tempo.

In fondo, il vostro lavoro è questo.

Esatto. Dare strumenti per capire. In ingegneria non esiste la verità assoluta: esiste il valore più probabile, con un margine di errore. Il nostro lavoro si basa sulla fiducia: misuriamo, stimiamo, restituiamo dati. E dietro un centimetro registrato in più o in meno, c’è uno studio davvero complesso, ma fondamentale.