Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un articolo di Alessandro Liverani dal titolo “Invertire la rotta: dobbiamo tornare a puntare sulle aree montane, non per nostalgia, ma per necessità” (che vi riproponiamo qui). L’articolo di Liverani sostiene che gli eventi meteorologici estremi — come l’ondata di maltempo di Natale e altre piene recenti — mostrano quanto sia insostenibile il modello di sviluppo che concentra popolazione, servizi e infrastrutture nelle pianure, trascurando aree collinari e montane. Secondo l’autore, i fenomeni estremi non sono più eccezioni isolate, ma una nuova normalità, e per questo è necessario invertire la rotta e puntare su politiche che favoriscano il riabitare delle aree interne non per nostalgia, ma per necessità, portando lavoro, servizi, connettività e sicurezza ambientale anche fuori dai centri urbani, nel quadro di un nuovo equilibrio territoriale. A seguito dell’articolo, è arrivata una lettera in redazione che vuole aggiungere alcune riflessioni all’appello di Liverani. La pubblichiamo di seguito.

La lettera

Caro direttore, l’appello di Alessandro Liverani è condivisibile, ma sbatte contro la spietatezza dei numeri e della logistica. Invertire la rotta è una necessità, ma con quali mezzi? A due anni dall’alluvione, la ferrovia Faentina è un malato terminale e le strade che portano a Modigliana, Brisighella o Casola Valsenio restano mulattiere rattoppate. C’è un paradosso contabile che la politica ignora: il welfare “ricco” di Faenza agisce come una calamita. Faenza spende 15 milioni in sociale; i comuni di vallata, messi insieme, non arrivano a una frazione. Perché una giovane coppia dovrebbe rischiare l’isolamento tra i calanchi, perdendo i sussidi e i servizi che la “corazzata” di pianura garantisce? La fragilità, paradossalmente, conviene dove c’è l’asfalto della Via Emilia.

Ma il punto vero è il costo del non fare. Ragionare per confini comunali è un suicidio economico. Il Marzeno nasce a Modigliana ma decide il destino di via Cimatti a Faenza; il Senio attraversa Casola e Riolo, ma se non viene gestito a monte, travolge Castel Bolognese e Solarolo. È assurdo che i comuni montani, “custodi del tetto” della Romagna, debbano gestire territori vastissimi con bilanci da fame, mentre la ricchezza si concentra a valle.

Dobbiamo dircelo chiaramente: mantenere la montagna costa meno che ricostruire la pianura. Ogni euro negato alla manutenzione di un fosso a Casola o a una frana a Modigliana si trasforma in dieci euro di danni a Solarolo o a Faenza. Il “non fare” oggi significa pagare domani miliardi in commissari, ricostruzioni e rimborsi che non copriranno mai le perdite reali di imprese e famiglie.

Se vogliamo che la gente torni in collina, serve una perequazione di bacino: le tasse prodotte dalle industrie di pianura devono finanziare strade e presidi idrogeologici a monte. Chi pulisce un bosco sopra Riolo rende un servizio di sicurezza pubblica a chi dorme a valle e va pagato per questo, non abbandonato a un isolamento da dopoguerra. Senza questa visione, il “nuovo paradigma” di Liverani resterà una bella favola da leggere mentre aspettiamo, invano, l’ennesimo bus sostitutivo.

Andrea Rava – Faenza