Care comunità parrocchiali, cari fratelli e sorelle, associazioni, aggregazioni, movimenti, ancora una volta ho l’opportunità di rivolgermi alle famiglie, ai piccoli e ai grandi, perché siamo chiamati a rivivere il mistero del Natale o, meglio, l’evento della nascita di Gesù Bambino tra di noi. Noi viviamo in un mondo che non è più lo stesso dopo la terza guerra mondiale a pezzi, le ferite non ancora rimarginate delle alluvioni, il continuo calo demografico, lo spopolamento delle aree interne, giovani che migrano per motivi di lavoro e tanti altri fattori di cambiamento culturale e sociale. Gesù che propone a noi il progetto d’amore del Padre non trova più lo scenario degli anni passati, segnati dalla pandemia, dalla vistosa erosione dello Stato sociale. In un tempo di disillusioni, di promesse allettanti, ma anche cruciali, dell’intelligenza artificiale, il Natale di Gesù, del Figlio di Dio, potrebbe essere sempre l’occasione di una rinascita, del ritorno in noi stessi, per uno sguardo disincantato sulle nostre reali condizioni storiche, dal punto di vista culturale, civile, economico, politico, ecologico. Il Natale potrebbe essere l’occasione per un bilancio più ponderato sui risultati dei mancati traguardi nelle alleanze con altri Paesi in vista della pace tanto invocata, della democrazia partecipativa e deliberativa, dell’Unione Europea, del suo ruolo nel mondo.

Ma a fronte di tanti problemi, rispetto ai quali due miliardi di cristiani saranno chiamati inevitabilmente a misurarsi, e che non è il momento di considerare, per ovvie ragioni, mi permetto di fare gli auguri natalizi a tutti, sollecitando a riflettere sul farsi «piccolo» del Figlio di Dio per avvicinarsi a noi, per non lasciarci soli, per sostenere chi vacilla, per rialzare chi cade sotto pesi troppo grandi per le nostre semplici forze umane.

Dio, nel Natale, si priva di ogni grandezza per condurci sulla via dell’Amore. Giunge in mezzo a noi, affinché possiamo comprenderLo, accoglierLo, amarLo. Ci invita a diventare simili a Lui. Vuole darci un cuore di carne. Viene, affinché ciascuno di noi possa dire, senza finzioni, con verità: vivo, però non vivo più io, ma Cristo vive in me (cf Gal 2,20).

In questo tempo di disincanto, di inizio dell’attuazione degli orientamenti pastorali del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, di necessario abbandono di vuoti sentimentalismi e di sterili fughe dalla comunione ecclesiale, caratterizzate dall’illusione di realizzare un rinnovamento per conto proprio, desidererei richiamare a voi una sollecitazione che ci proviene dalla recente esortazione apostolica Dilexi te di Leone XIV, un testo che abbiamo presentato alla Diocesi lo scorso 4 dicembre in cattedrale. Nell’esortazione il nuovo pontefice ci invita a non enunciare in modo generale la dottrina dell’incarnazione di Dio. Bisogna andare verso la carne di Cristo che ha fame, che ha sete, che è malata, carcerata, emarginata, emigrata, sfruttata, discriminata, povera di pensiero pensante.  

Dalla fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la sollecitudine per lo sviluppo integrale dei più abbandonati delle società.[1] Deriva, cioè, l’impegno nel rimuovere le cause della povertà, le strutture di ingiustizia e di peccato.

Talvolta – ricorda ancora papa Leone XIV – si riscontra in alcuni movimenti o gruppi cristiani la carenza o addirittura l’assenza dell’impegno per il bene comune della società e, in particolare, per la difesa e la promozione dei più deboli e svantaggiati. A tale proposito, occorre ricordare che la religione, specialmente quella cristiana, non può essere limitata all’ambito privato, come se i fedeli non dovessero avere a cuore anche problemi che riguardano la società civile e gli avvenimenti che interessano i cittadini.  In realtà, qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi.[2]

Se si è detto – aggiunge Leone XIV – che la fede ha una dimensione pubblica, va pure ricordato che la proposta del Vangelo non è soltanto quella di un rapporto individuale ed intimo con il Signore in sé.  La proposta è più ampia. È relativa al Regno di Dio (cf Lc 4,43). Si tratta di amare Dio il cui Figlio si è incarnato nell’umanità e nel cosmo per ricapitolare in sé tutte le cose, quelle della terra e quelle del cielo (cf Col 1, 12-20). Nella misura in cui l’amore di Cristo, che si dona in maniera incondizionata e in piena libertà, regnerà in noi e tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti.[3] 

Le strutture d’ingiustizia vanno rimosse, pertanto, attraverso il cambiamento della mentalità ma anche con l’aiuto delle scienze e della tecnica, attraverso lo sviluppo di politiche efficaci nella trasformazione della società.

I credenti per il loro battesimo sono chiamati non solo a contemplare la regalità di Cristo, ma a partecipare ad essa, ad estenderla. Sono chiamati a servire Cristo Re, a testimoniare con la vita e con la parola la sua Signoria. Sono chiamati ad essere autentici araldi della regalità di Cristo nel mondo contemporaneo. Innanzitutto, vivendo nelle nostre comunità la pace che Cristo dona a tutti i suoi discepoli. In secondo luogo, vivendo non una spiritualità disincarnata ma incarnata, contribuendo a realizzare con Lui il Regno di Dio. Come? Con un amore pieno di verità, amando Dio sopra ogni cosa: nelle relazioni, nelle istituzioni, nella famiglia, nell’educazione, nel mondo del lavoro, nell’amministrazione pubblica, nella ricerca del bene comune e dei beni collettivi (acqua, terra e cibo,[4] clima, energia rinnovabile), nei social, nell’impiego dell’intelligenza artificiale. Ciò facendo noi vivremo le attività umane, le relazioni interpersonali, gli ambienti sociali con il cuore di Cristo, ordinandoli al loro compimento in Dio.[5] Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui (cf Col 1, 12-20). In tal modo, le membra del Corpo di Cristo, uomini e donne, singoli, associazioni, aggregazioni e movimenti, agiscono, riconciliano e trasformano la città terrena in cui si prepara la Città di Dio.

In breve, il compito dei cristiani non è solo quello di pregare e di insegnare la vera dottrina. I discepoli non sono semplici spettatori dell’impasto di Gesù, che si paragona ad una massaia che mescola il lievito (il Regno) alla pasta,[6] ma vi collaborano. Come?  Assumendo lo stile del Regno, vivendo in particolare le beatitudini (cf Mt 5,1-12). Essi partecipano alla costruzione del Regno di Dio e, con ciò stesso, alla promozione integrale dei poveri.[7]

Viviamo il Natale di Gesù con queste parole nella mente e nel cuore. Auguri a tutti, alle famiglie, ai nonni e ai bambini.

Mario Toso, vescovo


[1] Cf DT n. 111.

[2] Cf DT nn. 111-112.

[3] Cf DT n. 97.

[4] Cf DT n. 12.

[5] Cf M. Toso, Gioia e speranza. Evangelizzazione, catechesi e insegnamento sociale, Edizioni delle Grazie, Faenza 20252, capitolo I.

[6] Gesù stesso disse: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (Mt 13,33; cfr. Lc 13,20-21). Qui il Signore sembra paragonarsi a una massaia, che mescola il lievito alla pasta, seguendo il giusto dosaggio, e sa attendere il risultato. Il lievito, di per sé, è il Regno, che la donna mescola alla farina.

[7] Cf DT n. 114.