Ero il piccolo padrone della missione di Ng’Ambo. Tutti mi conoscevano, tutti si fidavano di me. Non c’era cosa che non facessi con entusiasmo: annaffiavo i fiori del cortile, raccoglievo la frutta matura dagli alberi, tagliavo l’erba lungo i vialetti. Le suorine si affidavano a me con affetto: preparavano ogni giorno il cibo per padre Pietro, e io glielo portavo fiero, con passo sicuro e orgoglioso, come se stessi compiendo una missione importante. La mattina ero a scuola, ma il pomeriggio era dedicato alla missione. “Omarino, vieni qui!”, “Omarino, aiutaci con questo!”, e io correvo felice, dappertutto. Quelle suore, con le loro voci dolci e le mani laboriose, mi avevano adottato. E io, nel mio cuore di bambino, mi sentivo a casa. Anzi, mi sentivo il piccolo re di quel mondo. I miei genitori mi guardavano con occhi complici, ma non potevano nascondere un pizzico di gelosia. Sapevano bene quanto mi sentissi realizzato tra quelle mura, tra quelle presenze delicate e instancabili.
Un giorno mio padre disse, senza durezza ma con ferma determinazione: “Due volte alla settimana verrai con me nella shamba, dobbiamo insegnarti anche a conoscere la terra”. Così iniziò anche la mia vita nella shamba, il piccolo appezzamento di terra che avevamo vicino al villaggio. Il sole picchiava forte, e la zappa non era leggera. All’inizio brontolavo, ero infastidito: non c’era padre Pietro, non c’era la radio non c’erano le suorine. Ma poi un giorno, mio padre si chinò accanto a una piantina di granoturco e mi disse: “Vedi questa? Crescerà anche grazie alle tue mani. E quando la mangeremo, saprai che è anche merito tuo”. Iniziai a capire che c’erano tanti modi per amare un luogo, anche quello più silenzioso, polveroso e faticoso.
Alla missione, intanto, davanti al giardinetto dove stava padre Pietro, la sera si ascoltava come di abitudine sempre “Il Piave mormorava“, ma una sera, tutto cambiò. All’improvviso, dagli altoparlanti gracchianti uscì una melodia inaspettata: “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte…” Ci guardammo tutti increduli, poi ci mettemmo a ridere. Le suorine ballavano senza ballare, con un sorriso nuovo, e noi bambini eravamo presi da un’allegria incontenibile. Cosa stava succedendo? Eppure quella canzone ci travolse come una festa improvvisa. Si vede che piaceva anche a padre Pietro, perché da quel giorno, ogni tanto, la faceva mettere di nuovo. E ogni volta ci riportava lì, in quel tramonto leggero, nel giardino della missione.
Sembra incredibile, ma quando venni in Italia da bambino, con la nostalgia viva del mio villaggio africano, non erano i tamburi o i canti tribali a farmi venire il magone. Era proprio quella canzone italiana, leggera, di Gianni Morandi, allegra, quasi banale per molti. “Fatti mandare dalla mamma…” era diventata per me la musica dell’Africa, della mia Africa. I ricordi non seguono i luoghi comuni: hanno le loro strade misteriose, spesso sorprendenti. Fu una coincidenza che ancora oggi mi turba dolcemente, come il fremito improvviso delle palme prima della pioggia. Ricordo ogni dettaglio con una nitidezza quasi irreale, come se tutto fosse accaduto in sogno, o in una di quelle storie che si tramandano sussurrando, quando cala la sera.
Padre Goffredo Arsuffi arrivò nel nostro sperduto villaggio di Ng’Ambo dopo un lungo viaggio da Mogadiscio. Nessuno percorreva quella pista rossa se non per urgenze impellenti, malattie gravi o messaggi dall’alto. Era un pomeriggio soffocante, alla missione di Ng’Ambo, uno di quei giorni in cui l’aria sembrava ferma anche sotto le fronde larghe del grande albero di mango davanti alla missione. Il canto delle cicale era l’unico suono, monotono, quasi ipnotico. Poi, all’improvviso, il rumore gracchiante di un motore spezzò quel silenzio denso come miele. Una vecchia macchina – forse una Fiat 600, con la vernice opaca mangiata dal sole e dai sassi della pista – arrivò traballando e si fermò proprio sotto l’albero. Le ruote anteriori affondarono leggermente nella sabbia, e la marmitta emise un rantolo lungo, come un sospiro di stanchezza. Dentro l’auto c’era un autista magro, con la camicia intrisa di polvere, e accanto a lui un uomo che attirò subito la mia attenzione. «Omarino! Omarino! Aiuta ad aprire la portiera a padre Goffredo!» gridò suor Agnesina, che sbucò dalla veranda con il grembiule ancora legato in vita e una ciotola d’acqua per le mani.
Il nome “Padre Goffredo” mi punse come una zanzara silenziosa sulla pelle. Non lo avevo mai sentito, ma già sentivo che portava con sé una storia lunga e misteriosa. Senza perdere tempo, corsi verso la macchina. Il mio cuore batteva più in fretta, non solo per la corsa, ma per una strana tensione, come se stessi per aprire non una portiera, ma un segreto chiuso da anni. Mi inginocchiai, esaminai lo sportello come faceva mio padre quando riparava il vecchio armadio della scuola coranica. Con una mossa secca, scattai la maniglia arrugginita: il metallo scricchiolò, ma si aprì. Una nuvola di calore e odore di stoffa vecchia uscì dall’abitacolo. Il difficile fu far uscire il missionario. Era grassottello e completamente incastrato tra il sedile e lo sportello. I suoi occhi sorridevano, ma il corpo sembrava incastrato come in una trappola meccanica. Gli presi una mano – la sua pelle era morbida, ma umida e calda, come quella di un cucciolo bagnato. Mi misi di lato e spinsi con tutta la forza che avevo, mentre lui si contorceva emettendo piccoli mugolii e frasi in italiano che non capivo bene.
Alla fine, con uno strattone, lo scastrai. Il suo corpo rotondetto mi cadde addosso come un grosso sacco di riso. Respirava affannato, ma rideva. Era un uomo di bassa statura, rotondetto, con un saio marrone che sembrava parte della sua pelle, come se non lo avesse mai tolto. La barbetta grigia gli incorniciava il volto tondo, e gli occhi — quegli occhi! — avevano una luce viva, intelligente, quasi infantile, come se ogni cosa del mondo gli fosse ancora nuova. Sembrava un vecchio gufo pacifico, disceso dalla notte con un messaggio importante.
«Ecco, ecco… finalmente aria!» Poi si voltò verso suor Agnesina, che nel frattempo gli aveva portato una sedia di vimini. «Come si chiama questo ragazzino?» chiese, ancora ansimante. «Omarino», rispose suor Agnesina. «Allora è il fratellino di Luwanga che studia nel mio collegio a Mogadiscio. E’ il bambino di cui mi aveva parlato Pina Ziani» Mi bloccai. Luwanga? Il nome mi colpì come un sasso tirato nel silenzio. Restai immobile, la mano ancora sporca di polvere per aver aiutato padre Goffredo. Nella mia mente passarono in rassegna tutti i nomi dei miei fratelli, uno per uno, come un appello segreto che facevo dentro di me nei momenti di nostalgia: Nur, Mussa, Lugendo, Isha, Abdullahi, Fatuma Hassan, Mchiwa, Njama… ma Luwanga, no. Quel nome non mi apparteneva. Eppure, suor Agnesina l’aveva detto con sicurezza, come se sapesse qualcosa che io non sapevo.
Mi voltai verso padre Goffredo. Anche lui mi guardava con uno sguardo più attento ora, meno allegro, più curioso. “Allora sei proprio tu, il piccolo di cui mi ha parlato la professoressa Ziani di Forli’?” Quel nome – professoressa Ziani – non diceva nulla alla mia memoria. Eppure mi faceva paura. Non perché fosse minaccioso, ma perché sembrava portare con sé un passato che non mi apparteneva, eppure mi stava raggiungendo. Un passato che non avevo scelto, ma che stava per scegliermi. Quella sera, mentre le suorine cantavano sommessamente le lodi del vespro e l’aria odorava di polvere e gelsomino, chiesi a suor Agnesina chi fosse quella donna, quella “Pina Ziani” che viveva lontano, in un luogo dal suono freddo: Forlì. Lei si fermò, esitò. Poi mi accarezzò la testa. – È una professoressa. Insegna la lingua Italiana a Mogadiscio.
L’incontro
«Omarino, dì a tuo babbo di venire domani pomeriggio qui alla missione, perché padre Goffredo vuole parlare con lui». Lo disse suor Agnesina, col suo solito tono affettuoso ma deciso, senza possibilità di replica. Era una di quelle suore che, anche quando sorridevano, sembravano sempre sull’orlo di un rimprovero. Tornai a casa con l’annuncio, e appena lo comunicai a mio padre, vidi che lo accolse con un semplice cenno del capo, come se glielo avessero già detto in sogno. Ma fu mia madre a reagire davvero: «Vengo anch’io. Sicuramente vorrà darci informazioni su nostro figlio Nur». Nur. Mio fratello maggiore. Era partito per Mogadiscio con i miei cugini Ramadhani e Kaggwa, attraverso i contatti della missione, per studiare in un collegio cattolico. Non sapevo bene come fosse nata quella decisione, né perché fossero stati scelti proprio loro, ma da allora erano scomparsi nell’immaginario della “grande città”, quel luogo che per noi del villaggio era un miraggio, una leggenda in movimento, più che una vera capitale.
Il giorno dell’incontro con padre Goffredo, prima di salire verso la missione, mia madre insistette per fermarci dai suoi genitori, che abitavano vicino alla missione, «Dobbiamo salutare mio padre Mze Lugendo», disse con tono che non ammetteva obiezioni. Era un passaggio obbligato, ma per lei era molto più di un gesto di cortesia: ogni volta che si trovava al cospetto del vecchio Lugendo, la schiena le si raddrizzava, lo sguardo si faceva più fiero e il tono di voce più autoritario. Mio nonno era stato un guerriero della nostra tribù, temuto e rispettato. In quelle occasioni, mia madre sembrava trasformarsi: si sentiva parte della casta dei forti. E ogni volta che ci andavamo, non perdeva occasione di lanciare una frecciatina ironica alla famiglia di mio padre, che veniva da una stirpe di guaritori – rispettati, certo, ma, secondo lei, un gradino sotto ai guerrieri. «I tuoi…fanno bollire radici e sussurrano alle foglie. Mio padre invece parlava con la lancia», diceva a volte, con mezzo sorriso e occhi puntati su mio padre, che reagiva con un’alzata di spalle, come chi sa di essere abituato a quella rivalità domestica.
Arrivammo alla missione in silenzio. Mio padre camminava con il passo regolare e tranquillo di chi ha imparato a contenere ogni emozione. Sembrava calmo, ma io sapevo che dentro covava pensieri che non avrebbe mai detto ad alta voce. Mia madre invece era tesa, e io lo vedevo da piccoli segnali: muoveva le labbra in preghiere silenziose, e ogni tanto guardava il cielo, come se cercasse un segno. Lei era così: per ogni evento della vita, cercava una chiave nascosta, un presagio, un ordine segreto che solo lei poteva decifrare. Aveva un modo tutto suo di interpretare ciò che accadeva alla nostra famiglia, come se ogni cosa – anche la più banale – facesse parte di un disegno mistico, che noi altri potevamo solo intuire.
L’incontro con padre Goffredo durò più di un’ora. Io rimasi fuori, seduto su una pietra a disegnare nel terreno con un bastoncino, mentre le ombre si allungavano e il sole sembrava rallentare apposta per aumentare l’attesa. Quando finalmente i miei genitori uscirono dalla stanza, li osservai subito: mio padre aveva lo stesso volto di sempre, calmo, impassibile. Ma mia madre…mia madre no. Conoscevo ogni linea del suo viso, e notai subito quella lieve, quasi impercettibile, deviazione della rima buccale. Per altri sarebbe stata invisibile, ma per me era chiaro: qualcosa non le andava giù. Non dissero nulla. Nemmeno una parola mentre tornavamo a Bulo Yak, in fila indiana. Io camminavo per ultimo, cercando di intuire il senso dei loro silenzi. L’aria era carica di qualcosa che non si poteva nominare, e io sentivo che una decisione importante – forse la più grande della mia vita – stava per essere presa. E che io ero dentro quella decisione, ma ancora fuori dalla sua comprensione.
Qualche giorno dopo, mio padre annunciò: «Andrò a Mogadiscio. E verrà con me Omarino». Sgranai gli occhi. Tutti nel villaggio sognavano di vedere la grande città, e io, all’improvviso, ero stato scelto. Ma non riuscivo a gioire del tutto. Secondo la logica familiare, sarebbe toccato a mio fratello Mussa, che era più grande di me e, per gerarchia, aveva la precedenza. Quella scelta che mi poneva davanti a lui, invece di lusingarmi, mi mise in allarme. Era un segnale, un’eccezione alla regola – e da noi, le eccezioni non venivano fatte mai per caso. Mia madre non disse nulla. Ma nei suoi occhi lessi di nuovo quella stessa tensione che aveva attraversato il suo volto all’uscita dall’incontro col missionario. Continuava a guardarmi come se cercasse di capire qualcosa prima di me, come se già sapesse – o temesse – cosa avrebbe comportato quel viaggio. E da quel momento, io cominciai a vivere nell’attesa inquieta di un cambiamento che ancora non aveva un nome.
Omar Giama
(10- prosegue…)