La madrasa, la scuola coranica, era un edificio semplice, con mura di fango e un tetto di lamiera ondulata, circondato da un cortile di terra battuta. Le pareti all’interno erano spoglie, e vi erano appoggiate delle tavolette dove si poteva scrivere dei versetti del Corano in calligrafia araba. Mio padre, devoto musulmano, voleva che anch’io seguissi la via della fede. Ricordo il suo volto serio il giorno in cui mi accompagnò per la prima volta alla madrasa. Indossava il suo abito tradizionale, un kanzu bianco che rifletteva la luce del sole, e mi teneva per mano con fermezza e rassicurazione. Quando entrammo, l’imam ci accolse con un sorriso gentile, ma il mio cuore batteva forte per l’emozione e l’ansia. Sapevo che era molto severo. Le giornate alla madrasa erano scandite da preghiere e studio. Seduti su stuoie di paglia intrecciata, avevamo i libri sacri aperti davanti a noi. L’imam ci insegnava a recitare i versetti del Corano con la sua voce cantilenante che risuonava nella stanza. A volte, il caldo era soffocante e insopportabile, le mosche ronzavano incessantemente, ma mio padre era inflessibile: dovevamo apprendere la parola di Allah. Ricordo anche i momenti di gioco, quando, durante le pause, potevamo finalmente correre nel cortile. Giocavamo a nascondino tra gli angoli ombrosi e le nostre risate riempivano l’aria. Tuttavia, quei momenti di libertà erano brevi, e presto tornavamo ai nostri studi, con il sole che sembrava vegliare su di noi dall’alto. Gli studenti più anziani della madrasa affrontavano le sfide più ardue. Dopo aver memorizzato il Corano e ottenuto il titolo di Hafiz, si immergevano in studi avanzati che richiedevano un impegno straordinario. Approfondire la lingua araba era essenziale per comprendere i testi sacri nella loro forma originale, mentre lo studio della grammatica, della sintassi e della retorica affinava la loro capacità di interpretare i versetti coranici.
Un altro aspetto cruciale era lo studio della sharia, la legge musulmana. Gli studenti imparavano i principi giuridici e morali che governavano la vita dei musulmani, analizzando casi giuridici storici e contemporanei per prepararsi a diventare guide spirituali e giuristi. Parallelamente, esaminavano migliaia di ahadith, i detti e i fatti del Profeta Maometto, valutandone l’autenticità e distinguendo tra quelli autentici e quelli meno attendibili. Questo percorso richiedeva anni di studio, dedizione e sacrificio. Solo chi completava con successo tale formazione poteva ottenere il titolo di “alim”, sapiente, un ruolo di grande rispetto nella comunità islamica. Mio padre sperava che anche io un giorno avrei ottenuto quel prestigioso titolo. Vedevo nei suoi occhi ogni volta che mi accompagnava alla madrasa, il suo sguardo pieno di speranza e aspettative. Per lui, la formazione religiosa era la strada maestra verso l’onore e la saggezza, e desiderava che io seguissi le orme degli illustri sapienti islamici. Ma io mi sentivo ancora al primo gradino. Con il tempo, però, la mia insofferenza per quella scuola iniziò a crescere. Ogni giorno mi sembrava un’eternità. La madrasa, un tempo luogo di gioco e scoperta, divenne per me una prigione. L’atmosfera di disciplina ferrea e le aspettative di mio padre mi opprimevano. Anche durante le pause di gioco, la mia mente vagava, sognando una libertà che sembrava fuori dalla mia portata. Ogni lezione mi sembrava una prova della mia inadeguatezza, e mentre mio padre continuava a guardarmi con orgoglio, io mi sentivo sempre più colpevole per la mia mancanza di entusiasmo.
Il maestro era una figura imponente, inflessibile, che ci ricordava costantemente che il timore di Allah era la chiave per la felicità. La sua voce severa risuonava nelle aule mentre ci esortava a recitare il Corano con precisione. Ogni errore, ogni imperfezione, era punita con frustate crudeli. Le scudisciate lasciavano segni dolorosi sulla nostra pelle, e il terrore che suscitavano era sufficiente per farci lottare per la perfezione. Le giornate erano una continua battaglia per evitare le punizioni, per non deludere le aspettative del maestro. Ogni sguardo del maestro, ogni movimento, ci teneva in uno stato di costante tensione. Non c’era spazio per la leggerezza o la spensieratezza; ogni giorno era una prova di resistenza, un cammino verso l’elevazione spirituale. E così, con il cuore pesante e la mente sempre in allerta, continuavo a recitare e a memorizzare, vivendo sotto l’ombra della disciplina spietata.
Rispetto dei precetti coranici
Nella madrasa, il maestro era inflessibile nel far rispettare i precetti religiosi. Chiunque li infrangesse veniva punito severamente. Uno dei precetti più importanti era l’obbligo di recarsi in moschea ogni venerdì, e tra le regole più ferree per noi ragazzini vi era il divieto assoluto di giocare sulla riva del fiume Giuba durante quel giorno sacro. Il maestro ci aveva avvertito più volte che chiunque avesse violato queste regole avrebbe subito una punizione senza pietà. La regola di non giocare sulla riva del fiume Giuba non era solo un ammonimento religioso, ma un grido silenzio di sopravvivenza. Sussurrata come una legge divina, serviva in realtà a proteggere i più piccoli dai mostri reali che abitavano quelle acque torbide e profonde: coccodrilli antichi come il tempo, ippopotami pronti a difendere il proprio regno d’acqua con una furia primordiale. Il fiume, in apparenza placido e scintillante sotto il sole, era un inganno. La sua superficie calma celava abissi oscuri, tane di predatori silenziosi. Più di una volta si era sentito dire che un ragazzo, un bambino, era sparito, inghiottito dal nulla. Ma c’è una storia che ancora oggi, a distanza di anni, mi graffia il cuore come il ruggito sordo di un incubo che non si spegne mai.
Un giorno, una giovane madre era sulla riva, inginocchiata tra le pietre lisce, a lavare i panni con gesti abitudinari e ritmici. Suo figlio, un bimbo di appena cinque anni, giocava poco distante, ridendo e correndo tra i ciottoli. Il sole disegnava riflessi dorati sulle onde, e il canto degli uccelli sembrava una benedizione. Poi, tutto cambiò in un istante. Un’ombra, un guizzo, un lampo d’acqua. Un coccodrillo emerse dal nulla come un demone evocato dalla quiete. Il suo scatto fu tanto rapido quanto irreale. In un solo balzo trascinò il bambino tra le fauci, scomparendo nell’abisso del Giuba. La madre urlò; un urlo che ruppe il cielo. Ma era tardi. Per un attimo, il coccodrillo riemerse, al centro del fiume. E nel suo muso spaventoso, fra le zanne, si intravedeva ancora il piccolo che piangeva, con occhi spalancati dal terrore. Poi un ultimo tonfo. E il silenzio. Il bambino non tornò mai più. Da quel giorno, la madre non fu più la stessa. Impazzì. Ogni mattina si presentava alla riva, seduta sulle stesse pietre, lo sguardo fisso sull’acqua. Parlava al fiume. Pregava. Implorava. Aspettava. Per anni, ha atteso che quel mostro le restituisse il figlio. Ma il fiume non parla. Il fiume prende. E non restituisce nulla.
Questa storia, come tante altre, ci ricorda la spietatezza della natura. Il suo ordine non è il nostro. Non c’è giustizia, non c’è pietà. Solo il ciclo eterno della vita e della morte, dove i più deboli soccombono e i predatori governano. Il fiume non ha coscienza, eppure ha una voce. E quella voce, per chi ha vissuto lungo le sue rive, è un monito inciso nella carne: non tutto ciò che è bello è buono. Non tutto ciò che è naturale è innocente. C’è una saggezza antica, dura come la pietra, nelle leggi non scritte dei nostri avi. E a volte, dietro a una regola religiosa, si nasconde l’amore disperato di chi conosce troppo bene il volto più oscuro del mondo. Ma quando si è ragazzini si pensa che le cose accadranno solo agli altri non a noi. Per questo che io e il mio amico del cuore Abdulkadir decidemmo di infrangere quelle regole. La calura opprimente e il richiamo irresistibile delle fresche acque del Giuba ci spinsero a prendere una decisione audace. Ci avventurammo lungo il sentiero che portava al fiume, con i nostri cuori, sospesi tra l’eccitazione e la paura di essere scoperti. Giunti alla riva, ci togliemmo i sandali e cominciammo a giocare nell’acqua. Ridevamo e ci spruzzavamo, dimenticando per un attimo le rigide regole della madrasa. Tuttavia, ogni rumore della foresta circostante ci faceva sobbalzare, temendo che il maestro o qualcuno del villaggio ci avesse visti. Quando il sole iniziò a calare, la realtà delle conseguenze delle nostre azioni ci colpì con violenza. Tornammo di corsa alla madrasa, sperando di non essere stati notati. Tuttavia, appena entrammo, ci accorgemmo subito che i nostri volti tradivano la nostra colpa. Il maestro ci attendeva, il suo sguardo gelido e implacabile. La punizione arrivò presto e fu crudele. Il maestro ci chiamò davanti a tutti gli allievi, il silenzio nella stanza opprimente. Sentivo gli sguardi dei miei compagni, pieni di paura e pietà. Con voce bassa, carica di rabbia, il maestro ci condannò. Ogni frustata che ricevemmo fu una lezione dolorosa sull’obbedienza e sul rispetto delle regole. Il dolore era straziante, ma ancora più insopportabile era la vergogna. Sentivo le lacrime bruciarmi gli occhi, ma mi trattenni, consapevole che piangere avrebbe peggiorato le cose.
Dopo la punizione, il maestro ci ordinò di recitare la prima sura del Corano davanti a tutti, con il dolore che ancora pulsava nelle nostre schiene. Ogni parola che pronunciavo era intrisa di tensione e paura, ma anche di una nuova consapevolezza della disciplina che governava la nostra vita nella madrasa. Quella lezione mi insegnò il peso dell’obbedienza. Ogni frustata mi ricordava l’importanza del rispetto delle regole. Tuttavia, chi ha provato l’ebrezza di attraversare il Giuba a nuoto, sfidando i coccodrilli, dimentica presto la paura della punizione.
La tentazione del Giuba
Solo due settimane dopo quella terribile punizione, mi ritrovai nuovamente attratto dal richiamo del fiume. L’adrenalina e la libertà che avevo sentito nuotando erano troppo forti per essere ignorate. Decisi ancora una volta di sfidare le regole della madrasa. Quella mattina mi svegliai con una determinazione nuova. Nonostante il rischio, chiamai il mio amico e ci incamminammo verso il Giuba. Arrivati alla riva, senza esitare, ci tuffammo nell’acqua, lasciandoci trasportare dalla corrente. La paura dei coccodrilli era reale, ma l’adrenalina ci faceva sentire invincibili. Ogni bracciata ci portava sempre più lontano dalla riva, sempre più lontano dalle rigide regole che ci opprimevano. Ma la nostra euforia non durò a lungo.
Un giorno, il maestro, insospettito dalle nostre frequenti assenze, decise di seguirci. Ci osservò mentre nuotavamo, ignari del suo sguardo severo. Al ritorno, sulla riva, ci attendeva con uno sguardo di ghiaccio. Senza dire una parola, prese i nostri vestiti e se ne andò, lasciandoci nudi e pieni di vergogna. Restammo nascosti fino a quando il buio non coprì le nostre nudità, permettendoci di tornare a casa. Come potevo
andare alla madrasa dopo questa seconda infrazione? Avevo un paura tremenda. Feci di tutto per non andare più in quel luogo di perdizione. Ricordo che quando, ricevetti le scudisciate sulla schiena, per aver disobbedito alle regole della scuola coranica, fu mia madre ad occuparsi delle mie ferite. Mi fece sedere su uno sgabello di legno grezzo, e con mani esperte immerse una una specie di garza fatta di canapa nell’infuso che preparava mio padre – un decotto di cortecce e radici amare – e iniziò a medicare le abrasioni che mi rigavano la pelle. Mentre lo faceva, sbuffava piano, emettendo quei sospiri che, più delle parole, dicevano tutto. Mormorava frasi incerte, a metà tra un rimprovero e un lamento: biasimava il mio comportamento indisciplinato, e tuttavia – lo percepivo chiaramente – non approvava affatto quei metodi punitivi.
Nella struttura “patriarcale “della nostra società, il dissenso femminile non aveva uno spazio pubblico. Le donne vivevano in una condizione di espressività limitata, costrette a muoversi nel territorio ambiguo della parola sottaciuta, dello sguardo allusivo, del gesto implicito. Mia madre incarnava perfettamente questa condizione liminale: obbediva ai codici dominanti, ma li abitava con inquietudine. Non poteva opporsi apertamente all’autorità dell’Imam, né mettere in discussione la legittimità della scuola coranica, considerata da mio padre – e più in generale dalla comunità maschile – come pilastro fondamentale per la formazione morale e spirituale di un giovane musulmano. Eppure, nei conciliaboli tra donne, durante la preparazione del “uguali”, polenta di granoturco o nelle veglie notturne intorno al fuoco, emergeva una narrazione alternativa. Le donne parlavano in modo sfumato, ma netto, dell’islam come di una religione straniera, imposta da una storia coloniale più ampia, e da un potere maschile che l’aveva fatta propria per consolidare il proprio ruolo. Dicevano, senza dirlo, che la vera spiritualità risiedeva altrove: nel culto degli mviko, gli spiriti degli antenati, nei riti di possessione, nella conoscenza esoterica delle erbe, nel potere invisibile delle donne anziane. Per le donne, l’islam appariva come una religione di superficie, una maschera sociale indossata soprattutto dagli uomini, utile a presidiare la reputazione e l’onore, ma incapace di rispondere alle domande più intime e ai bisogni più profondi della vita comunitaria.
Quando una questione era davvero seria – una malattia, una morte improvvisa, un litigio tra clan – non si pregava Allah. Ci si rivolgeva agli spiriti degli antenati, si consultavano i veggenti, si invocava la sapienza arcaica che aveva radici molto più profonde di quelle della sharia.
Con questa consapevolezza, trovai il coraggio di confidare a mia madre il mio rifiuto. Le dissi, con il cuore stretto, che non volevo tornare alla scuola coranica. Il maestro, dopo la mia ultima disobbedienza, mi avrebbe massacrato. Non c’era bisogno che mia madre rispondesse con parole: i suoi occhi, colmi di dolore, parlavano per lei. Ero certo che mi era alleata, ma la sua alleanza era silenziosa, cauta, invisibile. Dovevamo trovare una via d’uscita che non mettesse in crisi l’autorità di mio padre, che continuava a credere nella necessità assoluta della formazione religiosa per garantirmi un futuro da muslim mwema – un buon musulmano. In quella notte tesa, mentre le cicale cantavano e la luna colava luce sui tetti di paglia, si aprì una zona d’incertezza. Bastava una parola sbagliata, un passo falso, e la mia ribellione poteva scatenare una reazione violenta, un ritorno brutale all’ordine. Ma se avessimo trovato una scusa plausibile – una febbre improvvisa, un malessere improvvisamente apparso – forse avremmo potuto guadagnare tempo. Forse avremmo potuto negoziare, lentamente, la mia uscita da quel percorso imposto. Era una partita a scacchi giocata nel silenzio, dove ogni pedina era una vita. E mia madre, donna silenziata ma non sconfitta, era la mia unica alleata in quella battaglia invisibile. Un venerdì accadde il miracolo, si palesò un uomo bianco.
Omar Giama
(4- prosegue…)