Bambini stranieri di prima, seconda, terza generazione. Alcuni appena arrivati, altri nati in Italia. La scuola faentina è sempre più multiculturale, ma non ovunque allo stesso modo. A Faenza, c’è chi prova a costruire ponti con passione e pazienza. Come Fabio Taroni, maestro alla primaria Don Milani.«A scuola nessuno è straniero» è il suo motto.
Intervista a Fabio Taroni, pedagogista e maestro alle Don Milani
Taroni, i bambini stranieri sono integrati?
Non tutte le scuole vivono la stessa realtà. È fondamentale distinguere tra bambini appena arrivati e quelli di seconda o terza generazione: questi ultimi sono perfettamente integrati, spesso nati in Italia.
Quali sono le difficoltà?
I problemi maggiori li riscontriamo nei bambini arrivati da poco, soprattutto per la barriera linguistica e il cambiamento culturale. Alcuni genitori, specie provenienti dall’Est Europa, trovano difficile comprendere il nostro approccio pedagogico più morbido e relazionale. In Italia abbiamo fatto enormi passi avanti grazie a figure come Dario Ianes e Andrea Canevaro: è stato un rivoluzionario della pedagogia inclusiva.
Come sono i rapporti scuola-famiglia?
Ci sono famiglie molto aperte, altre che tendono a rimanere chiuse nella propria comunità. Ad esempio, tra i bambini albanesi notiamo differenze anche in base all’apertura dei genitori. La scuola ha un ruolo chiave: osserva, accompagna e cerca di creare ponti, anche grazie a strumenti come laboratori di lingua e mediazione culturale offerta dal Centro per le famiglie.
Lei cerca di avvicinare i bambini stranieri alla cultura italiana o valorizza la loro identità?
Non opero mai con l’intento di “convertire” culturalmente. Il rispetto delle radici è un valore educativo. Io stesso sono un promotore della cultura romagnola e del dialetto. Preservare la diversità culturale è una risorsa, non un ostacolo. Molti bambini stranieri arrivano già bilingui o trilingui. La vera sfida educativa è far incontrare storie di vita diverse e costruire empatia.
Le famiglie partecipano alla vita scolastica?
Sì, spesso con maggior entusiasmo rispetto alle famiglie italiane. Devo dire che a volte i genitori stranieri si dimostrano più presenti e riconoscenti di quelli italiani. Li incontro anche anni dopo e mi salutano con affetto, ricordando il mio ruolo nella crescita dei loro figli. Il vero problema non è l’origine, ma l’interesse per il percorso educativo: chi si disinteressa lo fa a prescindere dalla nazionalità.
È più difficile insegnare in una classe multiculturale?
Le sfide ci sono sempre state, da Socrate in poi. Non deve mancare mai la passione, quella che io chiamo anche “vocazione”. Non è solo un lavoro: è un’esperienza umana profonda, che richiede presenza, relazione, ascolto. I giovani insegnanti hanno bisogno di ritrovare questo senso profondo del mestiere.
Ci racconta un aneddoto?
Il cortile della scuola è il mio esempio preferito. Lì vedi che non ci sono barriere, tutti giocano con tutti, e se c’è un bambino isolato non è perché è straniero, ma perché vive difficoltà personali. In quel momento, la differenza culturale scompare. Io poi ho una mia prassi: durante la ricreazione, chiamo un bambino alla volta per chiacchierare. Lo faccio da anni e funziona. Ascolto le loro storie, i loro pensieri. Dai bambini stranieri ho compreso molto, ad esempio scoprendo che un bimbo in difficoltà a scuola in realtà soffriva per dinamiche familiari complesse. La scuola fa il suo, ma serve collaborazione con la famiglia per costruire un ambiente educativo completo.
Barbara Fichera