Sono Omar Giama, sono stato dirigente medico del Pronto Soccorso di Faenza fino al 2022. Fino ai miei nove anni la mia casa era in Africa, la terra che mi ha visto nascere e crescere. Ho deciso di condividere con voi alcune storie della mia vita: frammenti di un percorso che unisce due mondi, due culture, due idee di patria. Sono storie vere, esperienze vissute, che forse potranno offrirvi uno sguardo diverso sul complesso mondo relativo ai fenomeni migratori. E’ un occasione anche per ricordare che 8 e il 9 giugno c’è il referendum sulla cittadinanza, un appuntamento molto importante, pertanto invito tutti ad esercitare questo importante e fondamentale diritto/dovere
Un aspetto fondamentale della mia identità e di quella della mia tribù, i Wazigua, è rappresentato dai rituali Mviko. In questa prima storia vi racconterò il mio impatto con questi rituali. Gli Mviko sono riti di iniziazione che segnavano il passaggio all’età adulta. Questi rituali, ora quasi scomparsi, erano il collante culturale che permetteva alla nostra gente di preservare le proprie tradizioni anche quando era costretta a migrare.
Seguitemi in questo viaggio. Vi parlerò di incontri straordinari, di sfide superate, di ostacoli che sembravano insormontabili. Vi racconterò di Faentini che hanno incrociato il mio cammino e mi hanno insegnato il vero significato di accoglienza e appartenenza.
E chissà, forse tra queste storie troverete qualcosa che vi farà riflettere sul mondo che vogliamo costruire insieme.
A presto. Omar Giama
IL PRIMO RITO MVIKO DELLA TRIBU’ DEI WAZIGUA
Il sole era appena sorto, e un chiarore dorato illuminava il giardinetto antistante la capanna dei miei genitori. Stavo giocando con una piccola palla di stoffa, i piedi nudi affondando al terra ancora fresca e bagnata. L’aria del mattino era densa di umidità, e l’odore della terra bagnata si mescolava al profumo pungente delle piante selvatiche che crescevano intorno. Ogni tanto, un uccello lanciava un richiamo acuto tra i rami degli alberi, spezzando il silenzio tranquillo dell’alba.
Improvvisamente, il suono di passi pesanti attirò la mia attenzione. Mi voltai di scatto e li vidi: tre figure imponenti avanzavano lungo il sentiero che portava alla nostra capanna. Davanti a tutti capeggiava un uomo anziano, alto e magro come un albero disseccato, il volto segnato da profonde rughe. La sua barba rossa, striata di grigio, pendeva lunga e selvaggia sul petto. I suoi occhi erano fessure sottili, , e il suo sguardo sembrava trapassarmi come una lama affilata. Alla cintura portava un coltello ricurvo, infilato in una fodera di pelle consunta il manico di legno intagliato si intravedeva appena.
Dietro di lui si muovevano due uomini più giovani, dalla corporatura massiccia, i muscoli delle braccia tesi sotto le maniche corte delle loro “nguo”, le vesti tradizionali della tribù dei Wazigua. Il loro portamento era rigido, quasi marziale, e i loro volti inespressivi, C’era qualcosa nei loro occhi che mi terrorizzava: una freddezza impassibile, Ogni passo che facevano verso di me sembrava allungare un’ombra minacciosa, preludio di qualcosa di oscuro e ineluttabile.
Mi sentii paralizzato e la palla scivolò dalle mie mani, rotolando lontano. Il cuore iniziò a battere forte, come se volesse sfondare il petto e fuggire da quel terrore indefinito che mi avvolgeva. Una scossa mi percorse la schiena, facendomi rabbrividire nonostante il calore del sole che cominciava a scaldare l’aria. Cosa stavano facendo quegli uomini qui, davanti alla nostra capanna, a quell’ora del mattino? Perché mi fissavano in quel modo, come se fossi già parte di qualcosa che non potevo ancora comprendere?
Con un tremore nella voce, chiamai mia madre, sperando che la sua presenza potesse dissipare quell’angoscia crescente. Sapevo, che la loro venuta non prometteva nulla di buono.
Con il cuore che mi batteva all’impazzata, mi allontanai lentamente, sperando di sfuggire alla loro attenzione. I miei piedi sfioravano la terra con cautela, cercando di non far scricchiolare i rami secchi sotto di me. Poi, senza preavviso, la paura si trasformò in un impulso irrefrenabile: scattai in una corsa disperata verso la capanna, dove i miei fratelli più piccoli giocavano ignari e mia madre era chinata sul forno a legna, intenta a preparare il “mkate”,una focaccia a base di granoturco.
Il suono della mia fuga era quasi assordante nella mia testa: il battito sordo dei miei piedi contro il terreno, il fruscio delle piante che urtavo nella mia corsa frenetica. Arrivai alla capanna con il fiato corto, il petto che mi bruciava, e mi infilai dentro con un movimento rapido, cercando rifugio tra le ombre scure. Mi rannicchiai in un angolo, accanto alle ceste di vimini piene di mais, sperando di sparire, di diventare invisibile agli occhi di quegli uomini. Il suono della mia respirazione affannosa MI rimbombava nelle orecchie,
Dal mio nascondiglio, potevo sentire le loro voci basse e gravi confabulare con mio padre fuori dalla capanna. Le parole erano indistinte, c’era una decisione nelle loro voci, qualcosa di ineluttabile che mi faceva rabbrividire.
E poi, prima ancora che potessi prepararmi, li vidi entrare. La loro figura riempì l’ingresso della capanna, Il vecchio dalla barba rossa avanzò per primo, i suoi occhi freddi che mi scrutavano con una calma inquietante. I due uomini giovani lo seguirono da vicino, i muscoli tesi, pronti all’azione.
Mi scoprirono subito. Non ci fu alcun gioco, nessuna rincorsa. Mi afferrarono con una rapidità spietata, le loro mani forti e callose si chiusero intorno alle mie braccia. Cercai di divincolarmi, di liberarmi dalla loro presa, ma era inutile. Erano troppo forti, Sentii le loro dita premere sulla mia pelle, stringendomi con una forza che mi faceva male. Le lacrime mi salirono agli occhi, ma non riuscii a piangere. C’era solo di impotenza che mi soffocava.
Tentavo disperatamente di incrociare lo sguardo di mio padre, sperando che potesse salvarmi, ma i suoi occhi erano fissi e lontani. Il suo viso, tanto familiare, era ora un maschera severa, un’espressione che non conoscevo, come quella di chi ha visto troppe cose e sa che alcune verità non possono essere ignorate. Non c’era più nulla nel suo sguardo che mi dicesse “non preoccuparti, ti proteggerò”. C’era solo un silenzio che pesava come un macigno. Forse, dentro di lui, sapeva che certe leggi, certe tradizioni, non ammettono domande. Dovevo essere portato via, punto e basta.
E così, la paura cominciò a crescere. Non avevo il coraggio di guardare mia madre, ma lo feci lo stesso. In quel momento, pensai di poter leggere nel suo volto un’invocazione di aiuto, una protesta silenziosa. Ma niente. Lei era immobile, come pietrificata, il viso vuoto e freddo, incapace di proteggermi.
Mentre mi trascinavano fuori dalla capanna, il profumo familiare del. “mkate”, che cuoceva si mescolava con l’odore acre della terra calpestata e con il sudore che mi colava dalla fronte.
Non riuscivo a capire cosa volessero da me, ma il loro silenzio parlava chiaro: non c’era via di scampo.
Avevo solo otto anni, e per la prima volta mi allontanavo dal mio villaggio senza la mia famiglia
Il terrore mi avvolgeva Fui condotto attraverso uno stretto sentiero nella foresta, le fronde degli alberi creavano ombre minacciose intorno a me. Camminavamo a passo spedito, i miei piedi nudi calpestavano radici e sassi taglienti. Le ore passavano lente e dolorose. Piangevo sommessamente, con il cuore stretto dalla paura. Sentivo un dominio totale su di me, una disperazione profonda . Non potevo fare nulla per sottrarmi a quel destino, non potevo fuggire. Ero rassegnato a un futuro ineluttabile, già stabilito da altri. Il fatto che tanti altri ragazzi fossero tornati vivi da quella cerimonia non mi consolava, anzi, aumentava la mia angoscia.
I due uomini giovani mi seguivano in silenzio, mentre il vecchio mi precedeva con passo deciso. Sotto i rami delle buganvillea, delle palme da cocco e delle acacie spinose, una luce brillante, quasi irreale, si diffondeva come in un acquario, paradossalmente piacevole. Sopra di noi, delle scimmie facevano delle acrobazie, fissandoci con occhi curiosi e mobili.
Improvvisamente, davanti a noi apparve un albero gigantesco e minaccioso, le cui radici aeree colonnari si tramutavano in tronchi supplementari toccando il terreno. Era un albero come non ne avevo mai visti, e metteva davvero paura. Tutt’attorno si ergevano alberi altissimi che ospitavano tra i rami una flora rigogliosa composta da muschi, licheni e orchidee. Il sottobosco era denso di felci e giovani alberi che vivevano nella semioscurità, mentre le liane si arrampicavano verso la luce.
Eravamo arrivati al confine del villaggio. Oltre c’era la grande foresta e l’ignoto. La paura di un dolore imminente esplose di nuovo dentro di me. Ero esausto: le gambe mi tremavano, la testa mi pulsava, e il cuore mi batteva forte. Pensavo che forse non avrei mai più rivisto i miei genitori e i miei fratelli, e che forse non sarei mai più tornato al mio villaggio.
Verso sera, giungemmo nella foresta profonda, dove ogni passo era un assalto di foglie e rami che ci schiaffeggiavano il viso, lasciandoci graffi e segni. L’oscurità della vegetazione sembrava avvolgerci, rendendo ogni ombra un potenziale pericolo. Finalmente, raggiungemmo una radura. Al centro, troneggiava un enorme albero, forse un baobab, le cui radici colossali si estendevano tutt’intorno come tentacoli. Alla base dell’albero, c’erano grandi vasi di terracotta, “tungi”, pieni di acqua e cibo come offerte votive per gli antenati.
In quella radura, incontrai altri sette bambini, tutti più o meno della mia età. I loro volti riflettevano lo stesso terrore che provavo io. L’uomo anziano ci scrutò con occhi severi e ci intimò di toglierci i vestiti. Con le mani tremanti e il cuore in gola, eseguii l’ordine, restando completamente nudo insieme agli altri. L’aria era fredda contro la mia pelle, accentuando il senso di vulnerabilità.
Ci informò che saremmo rimasti lì fino alla sera del giorno successivo. Nessuno doveva piangere, nessuno doveva tentare di fuggire. Quando pronunciò queste parole, il suo sguardo si fissò su di me, perforandomi l’anima. Abbassai lo sguardo, il cuore batteva all’impazzata, la paura mi paralizzava. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Quando il vecchio, con la sua voce rauca e autoritaria, disse quelle parole – “siete in otto, organizzatevi per la notte, perché le notti qui sono pericolose, ma voi siete in tanti” – “Organizzatevi.” Cosa significava? Come avremmo potuto organizzarci? Eravamo solo bambini, spaventati e soli, persi in un mondo che non capivamo.
Fu in quel momento, con il silenzio opprimente della radura attorno a noi, che capii veramente il significato della parola “organizzatevi” detta dall’uomo anziano. Non era un consiglio, non era una semplice istruzione. Era un avvertimento, un ordine che portava con sé il peso della sopravvivenza. Dovevamo cavarcela da soli, noi otto, e nessuno sarebbe venuto in nostro aiuto. La notte sarebbe arrivata, con tutti i suoi pericoli, e noi dovevamo trovare un modo per affrontarla. Mi sentii piccolo, insignificante, travolto da una responsabilità che non sapevo come gestire.
Gli altri bambini erano lì, altrettanto confusi e spaventati, e capii che se non avessimo trovato un modo per stare insieme, per aiutarci l’un l’altro, non avremmo avuto nessuna speranza. L’idea di “organizzarci” iniziò a prendere forma nella mia mente come un concetto nebuloso, ma necessario. Era una questione di vita o di morte, e in quel momento, per la prima volta nella mia vita, sentii il peso della sopravvivenza gravare su di me.
Mentre il buio incombeva, i tre uomini si allontanarono senza proferire parola, lasciandoci soli. Nel giro di mezz’ora, il buio fu totale, avvolgendo tutto in una coltre impenetrabile. Il vento sibilava tra gli alberi, e i rumori degli animali notturni ci incutevano una paura terribile,
Ci arrampicammo su quell’albero, cercando rifugio tra i suoi rami nodosi. Io mi sistemai a cavalcioni su un grosso ramo, il cuore in gola e la pelle d’oca per il freddo e la paura. Questa era la prima prova per diventare uomini, la più difficile e la più importante. Non potevo piangere, non dovevo avere paura, non potevo tornare al villaggio. Ero nudo, vulnerabile e abbandonato a me stesso
Non osavo scendere da quel ramo, e non sapevo per quanto tempo sarei potuto restare lì, in bilico tra la paura e la disperazione. . All’improvviso, dalla foresta emerse un animale. Si avvicinò furtivo alla base dell’albero, annusando il terreno e muovendosi con movimenti lenti e minacciosi. I nostri respiri si fecero ancora più lenti, cercando di non fare il minimo rumore.
Rimanemmo paralizzati, Quei cinque interminabili minuti sembrarono ore. Ogni secondo era carico di tensione; ogni rumore amplificava la nostra ansia. Finalmente, l’animale se ne andò, svanendo nella notte. Non sapemmo mai che animale fosse, ma la sua presenza aveva impresso in noi un terrore che non avremmo mai dimenticato.
La notte sembrava infinita; il sonno era un miraggio, mentre la fame e la sete mi erano sconosciute. Con il passare delle ore, quell’albero minaccioso divenne un rifugio, un amico. Mi offriva sicurezza, permettendomi di osservare, non visto, ciò che accadeva sotto di me: piccoli roditori che passavano, battaglie tra gatti selvatici e volatili notturni in cerca di insetti.
Finalmente, dopo un tempo che sembrava interminabile, la radura iniziò ad albeggiare. Scendemmo dall’albero con fatica, i glutei, le braccia e le gambe indolenzite, e la fame e la sete che si facevano sentire. Raccogliemmo una decina di manghi e delle papaie nelle vicinanze, che divorammo con gusto e avidità.
Il sole era appena sorto quando, tra i suoni della foresta, sentii dei passi che si avvicinavano lentamente. Erano uomini del villaggio, con le facce dipinte di rosso e al collo il “pingu,” una collana con un ciondolo di legno. Portavano in mano un bastone cerimoniale riccamente decorato con un puntale di ferro. Appena arrivati, uno degli anziani tracciò una riga sul terreno con il bastone, lo piantò e ci ordinò di sedere. Ci coprirono completamente con un lungo lenzuolo bianco e, dopo essere stati benedetti con acqua e sale e preghiere, rimossero il lenzuolo e ci fecero mettere in fila, sempre nudi.
Vicino al grande albero, su un tamburo, era posta una ciotola di legno con dentro una polvere nera e accanto un coltello affilatissimo. Uno degli anziani si avvicinò a me, tenendomi la testa ferma. Un altro prese il coltello e, con un colpo secco, fece due tagli profondi sulla mia fronte. Il sangue scorreva copiosamente sul mio viso e per terra, e piansi con disperazione. Immerse il dito indice nella polvere nera e, con vigore, la sfregò sulla mia fronte, dove c’erano i tagli. Il dolore lancinante si propagò dalla fronte alla nuca. Poi, con un bastoncino di legno arroventato, bruciò le due ferite sulla fronte. Quando il bastoncino di legno, ardente di calore, toccò le ferite aperte sulla mia fronte, il dolore fu così acuto che mi parve di non poterlo contenere nel corpo. La bruciatura mi trapassò come una lama infuocata, irradiandosi dalla fronte fino alla nuca, e si propagò come un’onda lungo tutta la schiena, fino a far tremare le gambe e a chiudermi lo stomaco in una morsa.
L’odore acre e pungente di carne bruciata mi riempì il naso, impregnandosi in ogni respiro; si fece così intenso da diventare quasi tangibile, intrappolato nella testa come una nebbia nera e densa, che si mescolava con il sapore del sangue. Era un odore selvatico e sgradevole, , che non avrei mai dimenticato.
Il dolore dei tagli, che pure era stato acuto, impallidiva ora di fronte a questa ustione. Non osavo urlare, perché sapevo che non avrei dovuto. Non potevo piangere come un bambino qualunque; tutto ciò che potevo fare era trattenere il fiato e singhiozzare a bocca chiusa, quasi soffocando i lamenti che volevano sfuggirmi dalle labbra.
Eravamo stati avvertiti: questo dolore non era per tutti, e nessuno di noi doveva raccontare nulla ai più piccoli, a quelli che ancora non erano stati sottoposti al rito. Era un segreto che avevamo il dovere di custodire, qualcosa che dovevamo vivere e portare con noi, in silenzio, fino al giorno in cui anche loro avrebbero conosciuto quel dolore.
Si diceva che quella polvere fosse ricavata bruciando il volto di un leone ucciso e fatto a pezzi con un “panga,” una sorta di machete. Chi veniva segnato con quella polvere custodiva il coraggio del leone ucciso.
(prosegue…)
