Quando si parla di “hikikomori” la mente va dall’altra parte del mondo, in Giappone. Il termine in effetti viene da lì, e parla di ragazzi che decidono di auto-isolarsi nelle loro stanze per mesi o anni. Ma un recente studio condotto da Chiara Francesconi, ricercatrice senior in Sociologia all’università di Macerata, e dalla regista ravennate Carlotta Piccinini dimostra che il fenomeno ha molto a che fare con il nostro territorio. «Secondo i dati che ho raccolto l’Emilia-Romagna è la regione che registra più casi – spiega Francesconi – e al suo interno la Romagna e in particolare la provincia di Ravenna sono le zone più colpite». I numeri derivano dall’Ufficio scolastico regionale su un questionario che ha coinvolto 700 scuole. Oggi si parla di oltre mille in regione. Nella loro ricerca, edita da Franco Angeli e disponibile a tutti in open access, Francesconi e Piccinini hanno contattato e intervistato 54 ragazzi ravennati proponendo loro delle immagini del territorio a partire dalle quali si sono raccontati.

Il mondo chiuso in una stanza

Hikikomori, il futuro in una stanza è questo il titolo che Francesconi ha scelto per la sua indagine iniziata in pieno lockdown, coinvolgendo anzitutto genitori, psicoterapeuti e operatori sociali per cercare di “entrare” nelle stanze degli hikikomori ravennati. «Paradossalmente la situazione che stavamo vivendo ci ha favorito – racconta –. In quel mondo bloccato per tutti, questi ragazzi si sono sentiti più simili agli altri. Ed è stato più semplice “darci le chiavi” delle loro stanze perché anche noi eravamo chiusi in una stanza». Lo spunto per raccontarsi, come detto, sono state delle fotografie di paesaggi naturali e industriali di Ravenna e la ricercatrice ha notato che davanti a queste immagini gli hikikomori si trovavano più a loro agio: «La non relazionalità di quelle foto dava conforto, come se la loro solitudine si trovasse di fronte a una solitudine più ampia». Possibilità-responsabilità, isolamento-conformismo, fuga-comunità, dentro-fuori, industria-natura: in filigrana, nelle immagini proposte, c’era una continua antinomia di valori. «Le immagini non avevano bisogno di parole», spiega Francesconi: innescavano automaticamente la loro emotività.

“A volte la scelta di auto-isolarsi nasce dal desiderio di ‘non dare problemi’ alle loro famiglie e agli ambienti nei quali vivono”

Dalle storie della ricerca emergono alcuni tratti in comune nel vissuto degli hikikomori della nostra provincia: «Si tratta soprattutto di ragazzi, tra i 14 e i 24 anni – racconta la ricercatrice –. Due sono le fasi più delicate: l’adolescenza e l’inizio dell’età adulta. Molti di questi ragazzi sono cresciuti in ambienti e famiglie di livello medio-alto con aspettative nei loro confronti piuttosto elevate. Per tutti c’è stato un trauma che ha portato alla decisione di isolarsi, ma dietro si celano una serie di micro-fratture che si accumulano negli anni nella loro vita sociale e che possono sfociare in isolamento». Si tratta, prosegue, di ragazzi con molte risorse: «a volte la scelta di auto-isolarsi nasce dal desiderio di ‘non dare problemi’ alle loro famiglie e agli ambienti nei quali vivono’».

Dipendenza da internet, disturbi alimentari, alterazioni del ritmo sonno-veglia: spesso agli hikikomori si associano questi tipi di disagio, che in molti casi vengono anche identificati come le cause delle loro scelte e dei loro comportamenti. Francesconi invece ha tutt’altra impressione: «Più che devianza in loro vedo dissenso. Dalle interviste ho colto un alto livello di sensibilità e responsabilità sulle problematiche emergenti, dai cambiamenti climatici alla geopolitica. E l’idea di non riuscire a essere coerenti con i loro valori o la mancanza di coerenza in ambienti familiari o sociali che frequentano li porta alla scelta di autoisolarsi. Per quello che ho visto hanno un grande senso delle regole e del dovere».

All’interno della propria stanza, cercano un’identità

Una sorta di “ribellione passiva”. Così la interpreta la ricercatrice. Con il tentativo, nelle loro stanze, di dotarsi di strumenti e risorse per combattere la loro “battaglia”: «Il web? Non è vero che sono dipendenti. Molti lo usano per seguire corsi di lingua. Alcuni leggono molti quotidiani. Non sono fuori dal mondo, ma dentro una stanza e lì cercano di trovare la loro identità, senza farsi violenza, a partire dal loro sistema di valori. Il passaggio da fare per molti di loro è capire che è possibile costruirsi questa identità a partire dal fatto che la vita è fatta anche di fallimenti, delusioni e tradimenti e che molto non dipende dai singoli».

Daniela Verlicchi